"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto." (Italo Calvino)
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ARGOMENTO: [#5] Scavare (racconti)

[#5] Scavare (racconti) 16/06/2012 04:06 #5736

AGGIORNAMENTO: la scadenza del concorso "Scavare" è posticipata al 31 Agosto compreso!

Scava dentro di te, perché dentro di te è la fonte del bene e zampillerà senza fine, se continuerai a scavare. (Marco Aurelio)

Scavare è il quinto tema di questa quarta edizione di UniVersi.
C'è tempo fino al 15 Agosto 2012 (compreso) per postare i propri elaborati.
Ricordo che è ammesso un solo racconto per autore.
Se al 15 Agosto non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine ultimo sarà prorogato al 31 Agosto.
Se al 31 Agosto non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine definitivo e improrogabile sarà portato al 15 Settembre.
I racconti vanno postati in forma anonima (gli autori saranno svelati a fine concorso, dopo le votazioni) effettuando il login con l'account "Titivillus", password "universi".
Ricordatevi di controllare il numero di caratteri prima di postare. I racconti che supereranno i 12000 caratteri (spazi compresi) saranno considerati fuori concorso.
Ricordatevi anche di postare un sottotitolo per la vostra opera.

Non lasciatevi impigrire dalla calura estiva. Lo so che c'è un gran capolavoro sepolto nelle vostre menti. Dovete soltanto armarvi di buona volontà e iniziare a... scavare!

REGOLAMENTO COMPLETO


RACCONTI IN GARA
  1. Re Carlo tornava dalla guerra, lo accoglie la sua terra, cingendolo d'allor. (3157)
  2. Estate 1984 (11957)
  3. V.I.T.R.I.O.L.U.M. (11335)
  4. La lunga attesa (4968)
  5. On your marks… get set… (6147)
  6. Il necroforo (8372)
  7. Vecchiaia (11989)
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"Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l'empêchent de marcher."
Ultima modifica: 04/11/2012 08:27 Da White Lord.
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Re: [#5] Scavare (racconti) 25/06/2012 18:42 #5754

Re Carlo tornava dalla guerra, lo accoglie la sua terra, cingendolo d'allor.


Al ritorno dal conflitto, Re Carlo ebbe una magnifica sorpresa: i suoi sudditi avevano ultimato il suo nuovo castello. Nuovo per modo di dire, perché era stato inaugurato quando ancora il sire era ben lungi dal suo ritorno; quindi il castello mostrava già i primi segni del tempo, l'aria calda e secca di quella regione stava lentamente dando il suo nefasto contributo.
Re Carlo però non badò a tali avversità - i suoi sudditi stavano già celermente provvedendo alle necessarie riparazioni - bensì si magnificò delle alte torri, delle splendide guglie e merli che adornavano le mura, delle bandiere dai molti colori, sventolanti in cima a lunghi pennoni.

Ben presto si rese però conto che mancava ancora qualcosa: il castello appariva sì maestoso, ma quanto avrebbe resistito ad un assedio? Il maniero sorgeva vicino ad una ripida scogliera sul mare, risultando quindi già ben difendibile, ma non si poteva mai sapere chi e come avrebbe potuto attaccarlo.
Servivano ulteriori difese, decise ordunque di scavare, o meglio di ordinare ai suoi sudditi di scavare per lui, un profondo e largo fossato tutto intorno al castello. L'acqua non sarebbe mancata: i suoi sudditi avrebbero ovviamente scavato anche un ingegnoso sistema di canali che avrebbe rifornito il fossato della stessa acqua del mare.

Una volta ultimato il fossato, Re Carlo si beò della bellezza dell'opera, invitando tutta la sua corte di nobili a rimirar tale maestoso maniero.
Destino volle che, proprio in quel momento di orgoglio, successe quanto di più terribile potesse mai accadere: un enorme tsunami arrivò dal mare ed investì il castello di Re Carlo.
L'altissima onda superò in scioltezza la scogliera, inglobò il fossato e passò di slancio oltre le mura, distruggendo con la sua furia tutto ciò che incontrava sul suo cammino: le torri, le guglie, le bandiere sui lunghi pennoni.
Re Carlo e i suoi nobili - per grazia di Dio al riparo su una collina vicino, da dove lo sire poteva meglio dilungarsi nelle sue beatitudini - restarono allibiti. Il silenzio si protrasse ancora per qualche momento, finché uno dei nobili non scoppiò a ridere, seguito subito dopo da tutti gli altri.

Re Carlo non ci pensò un secondo di più e...si mise a piangere.

"Buaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah! Buaaaaaaah!"

"Carletto, non piangere su, domani ne faremo un altro più bello."

La mamma fece un cenno ai nobili della corte (ehm, agli amichetti del figlio) di lasciarli soli, e prese Carlo in braccio. Poi sorrise a suo marito (suddito capocostruttore), circondato da palette e secchielli, sudato sotto il sole cocente, pieno di sabbia su gambe e braccia e con le dita rosse dal tanto scavare.

"Mamma, il castello era già bellissimo!" Rispose il bambino inconsolabile.

"Sì Carletto, ma vedrai che tuo padre lo costruirà ancora più alto, così alto che nessuna onda potrà spazzarlo via." Poi rise vedendo la faccia del marito, sconvolto solo all’idea.

"Ora perché non andiamo a scavare una buca vicino al mare?" Disse a Carletto. "Chiama anche tutti i tuoi amici se vuoi, almeno la facciamo fondissimissima!"

"Sìììììììììì!"

Re Carlo tornava alla sua guerra, lo accoglie la sua spiaggia, cingendolo d’amor.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 25/06/2012 19:24 Da Titivillus.
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Re: [#5] Scavare (racconti) 05/08/2012 13:31 #5903

Estate 1984

Ripenso spesso all'estate del 1984, l'estate in cui avvennero alcuni degli eventi più importanti della mia infanzia.
Mio padre, calabrese, era un ufficiale dell'arma dei Carabinieri, figlio, fratello e cugino di altri carabinieri. Fin da bambino sapeva che avrebbe seguito le orme paterne e l'aveva accettato di buon grado. Nel luglio del 1984 ricevette il suo primo comando, a ***, una ricca cittadina del Nord Italia. Aveva girato per il Paese fin da quando aveva terminato la scuola per allievi ufficiali Nunziatella di Napoli, fondamentale primo passaggio per far carriera nell'Arma. In Emilia aveva conosciuto mia madre e dopo poco tempo si erano sposati. Mio padre non era ben visto dai suoi colleghi. Si mormorava che avesse simpatie sinistroidi e il fatto che mia mamma avesse avuto un passato nel Movimento durante il '68 non lo aiutava e aveva in un qualche modo ostacolato quella che precedentemente sembrava essere una brillante carriera. Non era vero nulla, ma talvolta è impossibile controllare le voci e la maldicenza. Lui si definiva e continua a farlo tutt'oggi, oramai in pensione, un “conservatore progressista”, un ossimoro decisamente azzeccato.
Finalmente, ultimo tra i suoi colleghi di corso benché fosse uscito uscito dalla scuola con i voti più alti, ricevette il primo comando, in un momento molto difficile per la nostra famiglia. Mia sorella Emma, nata un paio di mesi prima dell'ordine di trasferimento, non assimilava in modo corretto né il latte materno né quello artificiale e stava soffrendo di un forte rachitismo. I miei genitori erano ovviamente molto preoccupati anche se cercavano di dare a me un'immagine di tranquillità e normalità.
Appena arrivato cercai immediatamente di conoscere i bambini del posto, almeno quelli che abitavano vicino a noi. Ero abituato a cambiare casa e amici, a causa del lavoro di papà. Mi accorsi subito che tutti mi guardavano con un certo sospetto, anche se mi trattavano abbastanza bene. Quando passavo sentivo mormorare frasi smozzicate con “ecco il figlio del carabiniere” e a volte “è proprio un terrone” e ovviamente ne soffrivo. Dovevo ancora svilupparmi in altezza e la mia carnagione scura ereditata dal lato paterno mi denunciava come un figlio del sud, anche se mia mamma era una nordica dalla pelle chiara. I figli dei sottoposti di mio papà erano tutti o troppo piccoli o troppo grandi, escludendo solo Carlo, un anno in più rispetto a me, figlio dell'appuntato, ma si diceva che fosse rimasto un po' tocco in seguito alla morte della madre.
Quando lo conobbi mi fece una strana impressione. Era un bambino dagli occhi spenti e con un aspetto strano. Sembrava fosse cresciuto all'improvviso e che le parti del suo corpo avessero avuto uno sviluppo incontrollato e indipendente l'una rispetto all'altra. Era fortemente disomogeneo, con gambe e braccia smisurate, da adulto, e il busto corto e sottile, da bambino. Il volto grigiastro, con un naso grosso, una piccola vela situata in mezzo alla faccia e la fronte altissima, quasi si trattasse di un idrocefalo.
Mi presentai, in modo un po' banale, forse.
< Ciao, sono Riccardo e mi piace giocare a calcio e leggere. A te cosa piace fare? >, non granché come inizio, devo dire.
Sul volto del mio interlocutore, stranamente vista la partenza, si accese una luce e i suoi occhi diventarono all'improvviso sveglissimi e intelligenti.
< Io sono Carlo, ma lo sai già. A me piace scavare. Dai, seguimi > e balzato su una bicicletta decisamente troppo piccola viste le sue lunghe leve, partì a tutta velocità, dandosi qualche ginocchiata al petto. Io lo seguii, d'istinto, ancora oggi non so dirmi il perché. Eravamo figli di due colleghi, “costretti” a conoscerci dai nostri genitori, eppure avevo sentito subito una forma d'intimità nei confronti di Carlo, una comunanza. Lui non si girò neanche una volta per vedere se lo stessi seguendo, ne aveva la certezza.
Seguì per poche centinaia di metri la strada provinciale che attraversava il paese e ad un certo punto scartò a destra, inserendosi su una stradina sterrata che si dirigeva verso il torrente cittadino. Dopo pochi metri la stradina si infilava in un boschetto fitto, fino ad arrivare quasi sulla sponda del fiumiciattolo. Lì, in una radura dominata da un salice, cresciuto proprio nel mezzo dello spiazzo, si fermò, abbandonò la bici per terra e si voltò verso di me, allargando un braccio per mostrarmi il suo dominio e la sua creazione: la radura era disseminata da buchi, di ogni forma e dimensione, da forellini nei quali poteva passare solo una cannuccia a fosse grandi come vasche da bagno. Carlo si avvicinò al salice che mi accorsi essere in larga parte cavo e dal tronco tirò fuori alcuni strumenti da giardinaggio per scavare e dei secchielli adatti a portare via la terra delle buche.
Fu così che cominciò una strana forma di amicizia, iniziata con poche parole buttate lì a caso e con un'intensa attività di scavo. Il mio nuovo e unico (e strambo) amico, parlava pochissimo, ma era molto forte e molto determinato.
Mia madre, quella prima sera, mi chiese di Carlo. Cercai di spiegarle le mie prime impressioni anche se oggi mi viene più facile renderle esplicite.
< Povero bambino. Ha perso la mamma e il padre, purtroppo, ha avuto un brutto esaurimento nervoso. E' tornato a lavorare solo da poco. Trattalo bene e cercate di non litigare, ha bisogno di stare con qualcuno che non lo faccia pensare troppo al suo lutto. Non farlo solo scavare, giocate anche un po' a qualcos'altro, non so a pallone, fate dei giri in bici. Fallo parlare se ci riesci. >
Riuscii a farlo giocare un po' ad altro ma per quanto riguarda il “parlare” non ottenni grandi successi. Carlo era silenzioso anche mentre giocavamo a calcio o a nascondino. Gli altri bambini lo guardavano ancora più con sospetto di come guardassero me. Del resto lui era “figlio di carabiniere” “terrone” e “matto”. E noi andavamo a scavare nella radura, rabbiosamente, per non dover ascoltare quei commenti.
Mio padre cercava di trascorrere un po' di tempo con me tutti i giorni, facendo un giretto in bici assieme per andare a prendere un gelato o una bibita o limitandoci a danneggiare un po' la siepe del nostro giardino facendo due tiri a calcio. Papà era ed è rimasto, nonostante abbia più di settanta anni, un uomo atletico e sportivo. Mi diceva sempre che per fare il carabiniere bisogna essere allenati.
< Ma ti immagini correre dietro a qualcuno con la pancia che ballonzola su è giù? Oppure ritrovarsi corpo a corpo con un delinquente che ti vuole accoltellare e tu magari da un po' di anni non riesci a piegare la schiena nemmeno per legarti le scarpe? >
Mio padre è sempre stato un tipo spiritoso e divertente, ritenendo un punto di merito far ridere la proprio famiglia, con il suo umorismo lieve e gradevole. Nonostante la preoccupazione per la mia sorellina neonata cercava di distogliere la mia attenzione con i suoi scherzi infantili, i piccoli gavettoni pomeridiani, gli attacchi repentini di lotta “solletico-romana” come la chiamava lui e fino a quando eravamo fuori casa o in giardino riusciva a ottenere il suo obiettivo. Quando ero a casa, però, passavo lunghi momenti a guardare Emma mentre dormiva, le poche volte che non si torceva per la fame o i dolori al pancino e la trovavo troppo piccola e brutta, grigiastra, patita e sempre sofferente e mi veniva da piangere anche se cercavo di non farlo. Non mi è mai piaciuto farmi vedere in lacrime, neanche da piccolo.
Allora finivo per scavare e scavare, e poi scavare e ancora scavare, assieme a Carlo che mi guardava di sottecchi, a volte con un pallido sorriso d'approvazione sul volto lungo e nasuto.
Ricordo ancora bene quella strana nottata di fine agosto, una nottata indimenticabile, stampata ormai nel mio cervello in maniera del tutto indelebile. Mio padre era di turno in caserma e mia madre si era ritrovata nel pieno della tempesta con me un po' spaventato e la bambina preda di una colica violentissima. Ad un certo punto, quella donna solitamente calma, materna e dolce, insegnante di lettere alle medie inferiori, abituata quindi a controllarsi, aveva avuto uno scatto d'ira tremendo. Si era messa ad urlare frasi sconclusionate che alle mie orecchie infantili erano apparse più potenti dei tuoni e quando l'avevo vista spaccare un servizio di piatti di porcellana, uno di quelli buoni, messi in bella mostra nella vetrinetta della credenza del salotto, mi ero spaventato. Mia mamma, una donna dolce ma molto forte e determinata, aveva finito per tirare un pugno contro un mobile, facendosi male alla mano. Per fortuna si era ripresa abbastanza presto e mi aveva abbracciato forte e tenuto stretto, resasi conto di essere andata troppo oltre.
Dopo essere crollato in un sonno agitato e popolato da brevi incubi, al mattino, ero andato cautamente in cucina. Mia mamma era lì con papà appena tornato dal lavoro, abbracciati, mentre lei in lacrime e con la mano fasciata, gli stava raccontando dello sfogo della notte precedente e di come mi avesse spaventato. Quando si accorsero di me mi inglobarono in un abbraccio di famiglia che mi scaldò il cuore e mi tranquillizzò.
Un paio d'ore più tardi mi ritrovai con Carlo nella radura a scavare. Entrambi ci stavamo mettendo parecchia foga. Chissà, forse anche il mio nuovo amico aveva passato un brutta nottata o forse era semplicemente più arrabbiato del solito. Ad un certo punto, con la mia paletta da giardinaggio colpii qualcosa di duro, biancastro. Dopo un paio di colpi capii che si trattava di un osso. Carlo ed io ci guardammo rapidi e senza neanche un cenno ci mettemmo a scavare ancora più violentemente nello stesso punto. Qualche tempo prima avevamo trovato le ossa di un gatto, seppellito vicino al greto del torrente. Ci rendemmo conto quasi subito che non si trattava delle ossa di un animale, bensì, evidentemente, di un essere umano. Io mi alzai di scatto, capendo immediatamente che non poteva trattarsi di un evento normale. Gridai a Carlo di smettere di scavare, ma lui sembrava non ascoltarmi. Presi la bici e mi diressi verso casa il più velocemente possibile. Mio padre ci mise qualche istante a svegliarsi, visto che era andato a letto dopo la notte lavorativa ma quando si rese conto della mia agitazione e del mio terrore autentico, si vestì immediatamente e dopo aver chiamato in caserma prese la sua bici e mi seguì. Quando arrivammo, lo spettacolo davanti ai nostri occhi era a dir poco agghiacciante. Carlo era seduto in terra, le ginocchia al petto, circondate dalle braccia dondolando ritmicamente, emettendo un suono soffocato, gli occhi sbarrati. Accanto a lui, nella buca che poco prima avevamo cominciato a scavare, s'intravedeva un cadavere con ancora brandelli di vestiti e carne addosso. Mio padre mi prese praticamente al volo e mi portò via, dietro dei cespugli dai quali non si poteva vedere la scena così macabra. Poi corse a recuperare Carlo, portandolo via di peso e quando arrivarono i colleghi lo consegnò a loro.
Qualche tempo dopo venni a scoprire che si trattava del cadavere di una giovane prostituta, sparita qualche mese prima. Il suo protettore venne incriminato per l'omicidio e si scoprì che l'aveva uccisa perché la ragazza era rimasta incinta. Divenni una celebrità, tutti i bambini e i ragazzini del paese venivano da me per avere dei particolari del ritrovamento, ma io, troppo scosso, rimanevo in silenzio. Dopo un paio di settimane iniziò la scuola. Il primo giorno mi ritrovai seduto da solo, fino a quando non entrò, in evidente ritardo, un bambino biondo con la testa grossa. Ci guardammo e dopo un istante si sedette accanto a me, benché non ci fossimo mai visti in vita nostra mentre lui era sempre stato in quella classe, facendo rimanere molto male il suo solito compagno di banco. Fu l'unico a non chiedermi nulla del cadavere, nonostante sapesse benissimo che ero stato uno dei due protagonisti della scoperta. Naturalmente fu l'unico a cui lo raccontai.
Fu così che nacque una grande amicizia.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Re: [#5] Scavare (racconti) 14/08/2012 16:42 #5912

V.I.T.R.I.O.L.U.M.

Tutti nella vita si prefiggono uno scopo, prima o dopo. Edward l’aveva trovato molto presto.
A otto anni perse i genitori e il fratello Alphonse a causa della peste che lasciò Ed solo al mondo. Seppur non l’avesse ucciso materialmente, la peste l’aveva ucciso dentro.
Pinako, il bonario chierico del paese che prese sotto custodia il piccolo orfano, negli anni successivi raccontò spesso a Ed che la benevolenza divina l’aveva salvato per uno scopo e che la Provvidenza divina gli avrebbe presto mostrato la via per raggiungere tale scopo. Ed sviluppò una sorta di repellenza “divina” a quello che riteneva essere un tentativo piuttosto maldestro di tirargli su il morale. Pinako lo trattava come un figlio, anzi, dicerie nel paese affermavano che i capelli castano chiaro, gli occhi tetri e gli zigomi leggeri, rotondeggianti in comune fra i due indicavano senza dubbio un rapporto di paternità o quantomeno di familiarità, ma la sua vera famiglia se n’era andata per sempre e questa consapevolezza non abbandonava mai Ed.
L’unica cosa in grado di dare sollievo alla sua anima era la lettura. Pinako desiderava ardentemente che il piccolo Ed potesse leggere la Bibbia per trovarvi conforto. Il suo desiderio si esaudì a metà: Ed lesse la Bibbia (anche se in realtà l’abbandonò all’inizio del Nuovo Testamento), ma non vi trovò alcunchè se non la passione per i libri.
Il fato, o la divina Provvidenza di Pinako, volle che gli scuri occhi di un Ed ormai quindicenne si posassero su un volume di un certo Geber secondo cui esisteva un elisir chiamato impropriamente Pietra filosofale in grado di fare cose da far impallidire i profeti dell’Antico Testamento. Così Ed si convinse di poter resuscitare in qualche modo la sua famiglia. Di certo era predisposto ad accettare per vera qualsiasi cosa gli permettesse di sognare di riassaporare l’abbraccio di sua madre, ma il libro di Geber lo convinse anche della necessità di studiare le arti alchemiche per padroneggiare al meglio la Pietra.
Ecco dunque che Ed, spinto dal desiderio di riavere la sua famiglia, trovò lo scopo della sua vita. Egli sarebbe riuscito a diventare un abile alchimista e a trovare la Pietra.

Pinako si dimostrò un ostacolo difficilmente sormontabile. Non accettava che colui che aveva cresciuto così amorevolmente abbandonasse lui, la Chiesa ed ogni possibilità di accedere al Paradiso per un’arte eretica quale l’alchimia. Resuscitare i morti era un compito esclusivo di Cristo e c’era sicuramente un perché alla morte della sua famiglia. Ma i perché fuori dalla sua portata erano indigesti a Ed che preferiva agire in modo eretico piuttosto che aspettare passivamente la mano della Provvidenza.
Dopo qualche tempo riuscì a superare i veti e le resistenze di Pinako e venne a conoscenza dell’esistenza sulle colline di un vecchio solitario praticante arti esoteriche chiamato il “Vecchio Geber”.
A sedici anni Ed scrisse una fredda lettera d’addio a quello che era stato suo padre per metà della sua esistenza con la promessa che un giorno sarebbe tornato con la sua famiglia. Nonostante il rapporto di conflittualità che si era venuto a creare nell’ultimo anno, incidendo anche sul suo aspetto ora incanutito, per Pinako Ed era davvero un figlio, per cui prese la sua fuga come se fosse sopraggiunta la morte di un figlio. Anche se fosse tornato avrebbe avuto con sé la sua vera famiglia, quella che desiderava con tutte le sue forze da sempre, quella cui Pinako evidentemente non aveva saputo sostituirsi. A questa consapevolezza se ne aggiunse un’altra: la Bibbia non era di conforto neanche per lui. Tuttavia continuò a credere fortemente alla Provvidenza vedendo le sue divine mani annodare il cappio intorno al suo collo per poi spingerlo giù dal tavolo. Tutto con un’ultima immagine nella mente, suo figlio, che venne a conoscenza della sua morte solo tempo dopo.

Dopo qualche mese dalla sua partenza Ed si trovò di fronte l’uomo che per primo gli aveva dato davvero speranza anche se alla prima occhiata pensò solo di avere davanti la persona più anziana che aveva mai visto. Rughe profonde segnavano il viso di Geber donandogli un sorriso macabro, incastonato in un volto apparentemente mansueto e quasi malinconico. I lunghi capelli grigi e la barba folta erano, agli occhi di Ed, segni di trascuratezza, non trasmettevano un senso di saggezza, erano i segni di un uomo vecchio e solo.
Prima di insegnargli qualsiasi cosa il Vecchio Geber volle sapere le motivazioni che spingevano Ed a voler padroneggiare le arti alchemiche e ad impossessarsi della Pietra.
- Acconsento alla tua richiesta di farti da magister – gli occhi azzurri del Vecchio guardavano lontano, immersi in un limbo invisibile a chi gli stava di fronte, come se stesse osservando qualcosa che tutto il resto dell’umanità bigotta ignorava. Lo sguardo e il tono di voce da uomo virile piuttosto che da debole anziano sorpresero Ed e il Vecchio sembrò accorgersene. - In realtà c’è una cosa sola che dovrai fare: scavare.

- Questa grotta nasconde ciò che desideri.
Si trovavano davanti ad un ingresso piuttosto stretto, che non sembrava nascondere chissà quali segreti. Più che una grotta poteva essere scambiata per la tana di qualche animale selvatico.
- Quindi cosa dovrei fare esattamente?
- Scavare.
La confusione di Ed sembrava non diradarsi.
Da quando erano giunti davanti alla grotta Ed aveva assunto un’espressione ebete ed era comprensibile dato che la situazione era sfuggita alla sua logica: la Pietra nascosta in una grotta così misera, anonima e soprattutto poco custodita.
- È sicuro che la Pietra stia ancora lì?
- È sempre lì.
Il Vecchio, d’altro canto, aveva mantenuto il suo sguardo perso in chissà quale dimensione e la sua capacità di estrema sintesi.
- C’è altro che dovrei sapere?
- Devi scavare.
- Ma…
- Devi scavare.
Ed intese l’ermetismo del maestro come parte del rituale alchemico fra magister e allievo, come parte di una prova che doveva superare. Sapere dove cercare la Pietra era già il più grande aiuto che potesse desiderare e le motivazioni per volerla non gli mancavano. Doveva solo scavare.

Nei giorni seguenti Ed scavò, mangiò, dormì, ma soprattutto scavò. Tutto quel lavoro ripetitivo, in quella piccola grotta, gli lasciava ampio spazio per i propri pensieri. Dapprima, per gran parte del tempo, pensava al momento del reincontro con la sua famiglia. Immaginò decine di possibili varianti, ogni ora una diversa riunione con i suoi cari. L’ispirazione per quelle immagini svanì precocemente così da lasciare spazio ad altri pensieri.
Scavò e scavò.
Come sarebbe stata la Pietra? L’avrebbe riconosciuta in mezzo alle migliaia che ogni giorno toglieva dalla grotta? E se l’avesse già scartata? E via altre decine di ipotesi, immagini mentali che si sovrapponevano fra loro mentre scavava e scartava altre banalissime pietre.
Scavò e scavò.
E il Vecchio? Che tipo strano il Vecchio. Magari aveva utilizzato la Pietra per ottenere l’immortalità e l’aveva seppellita aspettando chi gliela chiedesse per un valido motivo. Rivolere la propria famiglia era un motivo più che valido. Ma dopo? Poteva ottenere anche Ed la vita eterna?
Scavò e scavò.
Chissà come funzionava la Pietra. L’avrebbe usata e poi restituita al Vecchio? In fondo a lui importava solo di riavere la sua famiglia, a tutto il resto ci avrebbe pensato la Provvidenza. Vero Pinako?
Scavò e scavò.
Aveva nostalgia di Pinako. Certo che la famiglia gli mancava, ma questa mancanza esisteva da anni ormai, il rimpianto era diventato quasi un’abitudine. Invece la mancanza di Pinako era una cosa nuova, che non avrebbe mai pensato di poter provare. In fondo aveva passato la maggior parte della sua vita cosciente con lui. Della sua famiglia aveva ricordi lontani. Era lui che l’aveva cresciuto. Non erano neanche parenti eppure l’aveva sempre trattato come un figlio. E cosa aveva ricevuto in cambio? Mai una dimostrazione d’affetto, neanche nella lettera d’addio. Gli aveva sempre fatto capire chiaramente che lui non poteva sostituire la sua famiglia. Ma lui era la sua famiglia.
Scavò e scavò.

Scavò così tanto che dimenticò di procurarsi le scorte di cibo e acqua per due giorni.
Era giunto al termine del suo scavare. La grotta si apriva ora in uno spazio più largo. In fondo c’era una raccolta d’acqua e la mente con il suo istinto di sopravvivenza ricordò al corpo che aveva necessità di quell’acqua. Fiondandosi sul piccolo specchio d’acqua, Ed vide il suo riflesso. Era dimagrito parecchio e gli occhi prima tetri si erano spenti e infossati. Era cambiato. Quei giorni persi tra pietre e pensieri l’avevano cambiato. Si era reso conto di molte cose. Si sentì più maturo nonostante non ci fosse ancora segno di peluria sul viso, gli sembrava di aver passato anni a scavare.
Pian piano dall’interno della sua mente una voce prese il sopravvento. Dov’era la Pietra?

Risalì in superficie spinto da una furia nuova, mai era stato così adirato. Trovò il Vecchio vicino all’imboccatura della grotta. Non era solo. I suoi occhi impiegarono qualche minuto per riabituarsi alla luce solare e vedere un uomo indaffarato con degli strani arnesi con cui toccava il corpo del Vecchio che manteneva un atteggiamento quasi solenne nella sua impassibilità.
L’altro uomo si accorse del ragazzo sporco, vestito di stracci e magrissimo.
- Tutto bene ragazzo? – Ed non rispose – Dì Vecchio, lo conosci? – il maestro seguì l’esempio dell’allievo.
Non ricevendo risposta l’uomo si avvicinò a Ed squadrandolo per capire chissà cosa.
- Mi puoi dire chi sei? Vieni dalla grotta?
Ed sembrò finalmente capire e fece un cenno di assenso.
- Che ci facevi lì?
- Scavavo.
L’aria interrogativa dell’uomo sconosciuto lo spinse ad anticipare la domanda successiva.
- Dovevo trovare la Pietra filosofale, come mi aveva indicato il maestro Geber – non aveva mai pensato al Vecchio in questi termini così accademici.
- Geber? Il Vecchio ti ha detto di chiamarsi Geber? È uscito completamente fuori di senno – l’ultima frase la bisbigliò soltanto, ma venne intesa comunque.
La furia che aveva provato Ed si stava tramutando man mano in delusione ora che capiva la situazione.
- C-c-che intende dire?
- Ragazzo, mi spiace, ma credo che tu sia stato raggirato, seppur in buona fede. Questo è il Vecchio Weber, o perlomeno tutti al mio villaggio lo chiamiamo così per via della sua età e del fatto che più nessuno ricordi il suo vero nome.
La rabbia riprese fuoco, ma era ormai schiacciata dalla frustrazione, dalla delusione e dall’incredulità di aver svolto un lavoro completamente inutile. Per che cosa aveva tanto scavato allora?
- C-come…n-non…no…non è possibile…no…
- Il Vecchio non ci sta più tanto con la testa, non avercela con lui. Io sono un cerusico che ogni tanto gli fa visita più per tenergli compagnia che per controllare la sua salute. Da giovane era davvero un alchimista, ma ora sai, quando si raggiunge una certa età…
Ed ormai non sentiva più una parola, tutti i sensi erano obnubilati, era caduto in uno stato di trance.
- Ragazzo se vuoi un consiglio vieni al villaggio, riprendi le forze e poi torna dalla tua famiglia.
Tornare dalla propria famiglia. Quale famiglia? La famiglia se n’era andata per sempre.
No, sarebbe tornato da Pinako, la sua famiglia, l’unico al mondo che avrebbe potuto salvarlo dall’oblio in cui era caduto. Era caduto, sì, ma più in basso di così poteva solo scavare.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
L'Argomento è stato bloccato.

Re: [#5] Scavare (racconti) 15/08/2012 19:41 #5916

La lunga attesa


L'alba.
Il sole ritornava presto d'estate, il caldo invece non se ne era andato mai.
Da un'apertura nel muro un malefico raggio di sole lo svegliò in anticipo. Erano poche le ore di riposo per Africano, uno dei tanti schiavi addetti agli scavi. Quello era uno dei lavori peggiori, tra i più faticosi. Era comunque un privilegiato rispetto a tanti altri suoi colleghi: umiliati, maltrattati ed anche uccisi soltanto per un capriccio dei loro padroni.
Lui invece era trattato diversamente, molto meglio; agli occhi della nostra epoca potrebbe essere visto come un operaio sfruttato. Si stava male ma non malissimo, ce n'è di differenza dalla schiavitù.
Si dedicava quindi agli scavi con una discreta lena, sempre impegnato dalla mattina fino alla sera in quel lavoro che fino a poco tempo prima sembrava senza ne capo ne coda, ora invece prendeva forma.

Un'intera collina stava per essere svuotata, immensa! A seguire sarebbe stata spianata ed adattata per potervi erigere la nuova  struttura, l'Anfiteatro di Pompei.
Un'imponente costruzione che avrebbe contato su ventimila posti, pronti ad essere riempiti per assistere ai tanti giochi circensi e sopratutto alle lotte tra gladiatori.

Africano: un nero alto, nodoso, dalle lunghe leve e dal sorriso mai mostrato; conosceva l'importanza di quella costruzione per il suo padrone.
Era nato tutto da una predizione. Marco Porcio teneva in grande considerazione ogni parola che il suo oracolo proferiva e questa volta ne era rimasto rapito:
- Si parlerà di noi per sempre! -
Tanto bastò per invogliarlo ai lavori, oltre al prestigio e la fama che lo avrebbero reso famoso ben oltre Pompei. Africano se ne rallegrava. Fossero andate bene le cose forse avrebbe anche potuto ottenere la grazia, vivere libero!

Ma gli anni passavano e la fatica lo rendeva sempre più debole. I tempi della forte e rigogliosa gioventù se ne erano andati e stavano lasciando il posto alla vecchiaia, ogni giorno di più.
La forza d'animo però non veniva mai meno, poteva ancora guardare davanti a se e scorgere la speranza. Si chiedeva sovente se tutti quei lavori avrebbero avuto il giusto riconoscimento, se l'anfiteatro avrebbe avuto successo, non era certo in grado di capirlo anche se se lo augurava.

Come si può riempire di persone tutta questa valle?
Quanti blocchi di marmo dovrò trasportare ancora?
Quanto dovrò scavare?

Si faceva queste domande mentre canticchiava canzoni della sua terra, un posto lontano e mai dimenticato, mentre sperava con tutto se stesso che la grande energia spesa potesse portare a qualcosa di buono, e magari anche tornare a casa.

E la sera... quando era ora di andarsene... con il tramonto... quel posto assumeva un aura particolare.
Più volte si fermava ad osservare, rischiando le ire dei suoi controllori, più volte ebbe la sensazione che li sarebbe accaduto qualcosa di magico che tutti, schiavi e non, avrebbero potuto apprezzare. Non sapeva dire cosa, ma la sensazione era vivissima. Non era neanche il parere di uno stolto, nella sua tribù era un importante curatore, e gli Dei gli avevano parlato. Sapeva di aver ragione e che sarebbe successo qualcosa prima o poi.
Tutti ne avrebbero goduto, tutti.

Non riuscì a vedere la fine dei lavori purtroppo, il suo sogno si infranse presto. Un blocco di marmo grande il doppio di lui e mal ancorato gli rovinò addosso, lasciandolo a terra esanime.
Mancavano soltanto una manciata di giorni alla fine dei lavori.
L'anfiteatro avrebbe riscosso un successo incredibile per oltre cento anni, ma questo non lo seppe mai.
Era il 70 A.C. (Questo invece non lo sapeva nessuno)

L'anfiteatro fece storia: fu chiuso, fu riaperto, fu teatro di spettacoli meravigliosi e di orribili scontri, persino tra il pubblico ci si infuocava. Una volta gli scontri più duri avvennero proprio sulle tribune, con morti e feriti.
Fu ristrutturato: il terremoto lo danneggiò al punto da richiedere una manutenzione straordinaria; fino a che, pochi anni dopo quest'ultima, la tristemente nota eruzione lo seppellì.

Pompei fu sepolta da lava, cenere, lapilli e quant'altro, anche l'anfiteatro venne ricoperto. Assaggiò il calore rovente delle pietre fino a che non gli si raffreddarono intorno e li rimase, celato alla vista di tutti.

Le cose cambiarono sopra di lui. Gli anni scorrevano a fiumi e l'anfiteatro non se ne accorse neanche. Ogni tanto una radice veniva a fargli visita per qualche manciata di anni e poi ritornava solo, al caldo della terra.
Ci vollero circa mille settecento anni prima che le sue mura potessero essere di nuovo accarezzate dall'aria, ed altri duecento affinché il sogno di Africano si avverasse.

Un giorno di ottobre... esattamente quaranta anni fa... un gruppo di ragazzi... proprio in quel posto che aveva visto il sangue e l'arte di innumerevoli persone... iniziarono con i loro strumenti a diffondere nell'aria... la magia che tanto Africano aveva desiderato e preventivato.


Tutti ne stanno godendo.



1972-2012
Pink Floyd
Live at Pompeii
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Re: [#5] Scavare (racconti) 16/08/2012 16:37 #5922

“On your marks… get set…”

Ci sono dei momenti, nella vita, in cui vale la pena fermarsi a pensare. Ascoltarsi. Sono momenti brevi: istanti, in effetti. Non è certo facile fare i conti con se stessi. Non quando si è pieni di paure, di incertezze. Pieni di rabbia, di incompiutezza. E, cosa ancora peggiore, non ci si riesce a sfogare in alcun modo.
Che cosa si può trovare scavando dentro di noi? Che cosa vorremmo scoprire? Che cosa abbiamo paura di confermare?
E’ mai possibile che un forte si scopra debole? Che una persona coraggiosa si riscontri poi in un essere vile?
E’ lecito che accada anche l’inverso?
Possibile che un individuo scoraggiato trovi la forza di incominciare finalmente a vivere? Di apprezzare quello che ha? Di scoprirsi un po’ migliore, e anche molto migliore in alcuni casi, rispetto a quello che pensa di essere, quello che pensa di valere?
C’è qualcosa di più sbagliato nel conferire un valore all’individuo? Davvero qualcuno ha più dignità di qualcun altro? O non siamo tutti uguali?
No, non lo siamo. In partenza forse sì. In partenza si è tutti uguali, chi si riscalda prima della corsa, chi sta fermo per concentrarsi, chi gioca con il pubblico per scacciare la paura.
Ma come possono essere tutti uguali? Non sono costoro, in questi esempi sopracitati, tutti quanti diversi?
Non lo sono perché, prima della partenza, la corsa non è ancora cominciata. Nessuno ha ancora accumulato nemmeno un minimo vantaggio. Certo, ci sono i favoriti dal pronostico. Ma è poi la corsa che decide l’ordine di arrivo. E c’è un istante, che è l’istante di cui si è parlato in capo a queste righe, in cui si può intuire chi vincerà. Questo istante è direttamente correlato al momento in cui i corridori fanno i conti con loro stessi, perché c’è silenzio, perché sono ancora nella fase di attesa, anche se l’attesa durerà per poco, per pochissimo.
I comandi sono chiari:
“On your marks” (“Ai vostri posti”)
“Get set” (“Pronti”)
E qui parte l’istante.
La durata dell’attesa, nonostante non possa oscillare più di tanto prima dello sparo, è a discrezione di chi spara. E chi spara non deve correre. Non deve fare i conti con alcuno.
Il corridore, invece, è a capo chino. Ha gli occhi chiusi. E’ in apnea. Cerca di controllare il battito cardiaco, ma è un’impresa titanica. Un conto è provare e riprovare delle situazioni in allenamento. Un conto è gareggiare per davvero. Ha già visto il traguardo prima di sistemarsi sui blocchi: in questo momento il traguardo non potrebbe essere più lontano. E non vale la pena degnarlo di un altro sguardo. Sta per iniziare tutto. Ma ha ancora un istante per fare qualcosa, per fare qualsiasi cosa. Perché con il pensiero si può fare davvero ogni cosa: si può cavalcare una cometa, si può andare a letto con la donna dei sogni, si può far scorrere la propria vita in pochi centesimi di secondo. Fare un resoconto del proprio cammino sino a ora, chini sui blocchi di partenza dei cento metri piani, in attesa dello sparo che dia inizio alla corsa.
Effettivamente, sarebbe più semplice pensare, dedicare tempo alla propria storia, prima dei due comandi. Eppure, prima dei due comandi si è troppo agitati per pensare. C’è troppo brusio attorno. Troppo nervosismo lasciato trasparire dagli avversari. Non c’è possibilità di pensare in quegli attimi. Gli atleti vengono presentati uno per uno dallo speaker: è una passerella. La gara sembra ancora lontana.
Dopo il primo comando (“On your marks”) ci sarebbe molto più tempo rispetto al tempo che scorre dopo il secondo comando. Ma il primo comando coglie sempre tutti un po’ di sorpresa. E’ un gesto meccanico quello del corridore che si sistema sui blocchi di partenza. Ha il vuoto in testa. Non riesce ancora a pensare. Anzi, non deve pensare proprio a nulla. Sa bene che da qui in poi non si scherza. E’ come se la gara psicologica sia incominciata proprio con quelle parole.
Invece dopo il secondo comando (“Get set”), e appena prima dello sparo (“Bang!”), i muscoli si tendono, il corpo si proietta in alto in un’esecuzione motoria armonica, sincronizzata.
Si è tutti in fila, come sull’attenti: delle molle pronte a scattare. Non bisogna partire prima dello sparo, ma nemmeno partire appena dopo, giacché l’udito non può cogliere il suono dello sparo immediatamente se non dopo una frazione di secondo. Millesimi. Che fanno la differenza tra chi ha troppa fretta di partire e perde tutto e chi invece ha lasciato scorrere davanti a sé la sua vita ed è stato interrotto dal suono prepotente della pistola e poi, fatalmente, vince la gara.
Perché chi vince la gara ce l’ha scritto negli occhi. Chi vince la gara, in quell’istante magico, silenzioso, pensa un po’ a tutto: pensa che questa mattina se la stava facendo sotto dalla paura, che la notte prima non ha dormito bene e la sera prima non ha mangiato molto perché non aveva fame, essendo troppo eccitato per la vigilia della gara. Pensa ai sacrifici che ha fatto durante tanti anni di allenamento. Alle urla dell’allenatore insoddisfatto e alle volte che ha pensato di mollare tutto, di lasciar perdere questa strada. Pensa alle prime gare giovanili vinte, a quelle perse. A quando correva col fratello nella foresta. Stavano ore fuori di casa, invece di andare a scuola, e correvano nel bosco vicino a casa per tutta la mattina. Correvano finché il cuore non sembrava scoppiar loro in petto. Correvano inseguiti dagli insetti, dagli scoppiettii dei rami che si spezzavano al loro passaggio. Quel bosco era il loro rifugio. Lì erano inarrivabili, invulnerabili.
Pensa alla prima gara di corsa del suo villaggio, quando era stato battuto da un ragazzo più grande. Alla fine della gara questi si era voltato verso di lui e lo aveva spinto per terra dicendogli che non avrebbe dovuto osare confrontarsi con lui. Pensa alla madre che allora gli era andata incontro, mentre piangeva, per consolarlo in un abbraccio. Pensa che quell’abbraccio in effetti non gli serviva a nulla, non avrebbe cambiato il risultato della gara, non avrebbe fatto giustizia davanti alla prepotenza del ragazzo più grande. Eppure era un gesto che alla madre era parso naturale compiere. Un abbraccio.
Ecco, ora pensa a quell’abbraccio. (“Bang!”)
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Re: [#5] Scavare (racconti) 29/08/2012 14:22 #6001

Il necroforo

«Che lavoro fa tuo padre?»
«Il necroforo»
«E che lavoro è?»

Beh, a partire dall'età di tredici anni, questa domanda me la sono sentita ripetere più e più volte.
D'altronde è normale, soprattutto in ambito scolastico, scambiarsi opinioni sulla propria vita personale e io non perdevo occasione di "vantarmi" del fatto che conoscessi quella parola e che mio padre per davvero faceva un lavoro così particolare.
Certo, i primi tempi non furono facili, anche perché non tutti sanno che fare il necroforo non vuol dire semplicemente lavorare dentro un cimitero; tanto che la battutta più comune degli adulti è: «almeno non si lamenta nessuno...».
Ecco perché vi racconterò semplicemente di mio padre. Perché la parola "scavare" m'ha fatto pensare irrimediabilmente a lui e a come, la vita, ti metta davanti a cose inaspettate ma pur sempre interessanti.

I compiti del necroforo cambiano (e parecchio) di comune in comune. Dove era capitato mio padre, oltre al compito di seppelire le bare, di fare le murature e le riesumazioni c'erano anche tutta una serie di attività "insolite" che, in altri cimiteri, non venivano svolte dal necroforo tradizionalmente. Tra queste: assistere alle autopsie svolte dal medico legale, effettuare il recupero dei cadaveri dando disponibilità di 24 ore almeno una volta al mese, fare la chiusura dei cimiteri periferici.
Si, perché la città che ospitava mio padre aveva ben tredici cimiteri compreso quello principale. Gli altri dodici erano dislocati lungo le frazioni più o meno disperse e, una volta a settimana, toccava ad un necroforo girarli con la Fiat Panda del comune, uno per uno, suonare la campana, visitarli velocemente accertandosi che non ci fosse più nessuno di vivo dentro, risuonare la campana e chiudere definitivamente il cancello.
Un paio di volte, mio padre, mi portò con lui a farlo. Mi sconvolse un po' l'idea di poter restare chiuso lì dentro per una notte intera ma, a quanto pare, non era mai successo. Anche perché quei cimiteri non è che fossero troppo frequentati. Giusto qualche signora anziana che si fermava un po' di più ma mai nel pomeriggio inoltrato essendo anche scomodi da raggiungere.
Come dicevo poco prima però, non fu certo facile all'inizio.
Da poco mio padre s'era finalmente deciso a prendere le benedetta "terza media". Erano ormai quasi vent'anni che era emigrato dal suo paesino del sud in cerca di fortuna al nord Italia assieme a due dei suoi fratelli. La ricerca era stata abbastanza fruttuosa. All'epoca il nord era pieno di fabbriche e, se uno cercava lavoro anche nel campo edilizio, non faticava a trovarne uno, nonostante i 14 anni.
Gli anni '70 erano un po' così ovunque, senza aver paura di generalizzare.
Poi però si mette su famiglia, la fatica aumenta così come la voglia di trovare un lavoro sicuro, stabile e possibilmente con orari che non prevedano turni o trasferte di settimane intere. Quasi un luogo comune quello dell'emigrato del sud Italia che cerca un impiego statale ma così fu anche per mio padre.
Certo, senza la terza media era praticamente impossibile entrare. Già negli anni '70 infatti, anche per fare l'operatore ecologico, occorreva appunto la terza media.
Io e mio fratello gli preparammo tutto, mentre lui lavorava in fabbrica sui tre turni. Ricordo ancora che registrammo su una musicassetta come funzionava l'orecchio più altre cose di altre materie così che potesse ascoltarla e memorizzarla visto che non era proprio rapido a leggere.
Il giorno dell'esame fu un'epopea. Mia madre chiamò dal suo ufficio a casa chiedendo a me se sapevo che fine avesse fatto mio padre. In casa non c'era. Il direttore dell'Istituto s'era preoccupato non avendolo visto. Era il 1997. Anni dopo mio padre ci disse che era andato davanti al cancello dell'istituto ma, vedendo tutti quei ragazzini, si era vergognato al punto da non entrare.
Mia madre, quel giorno, riuscì a rintracciarlo giusto in tempo portandolo letteralmente dentro l'aula. L'esame lo passò senza problemi e, finalmente, anche i pezzi di carta furono messi in ordine.
Non passò neanche un anno che arrivò quella chiamata dal Comune. Certo, la distanza di cinquanta chilometri e l'ipotesi di lavorare dentro al cimitero non erano delle più allettanti ma, vista la situazione, sarebbe stato lo stesso da stupidi lasciarsi scappare l'occasione. Anche perché, una volta entrato, si poteva sempre fare domanda interna per avvicinamento nonché cambio di ruolo.
Dopo il primo giorno di lavoro mio padre non voleva più tornare. Era completamente sotto shock e solo la forza di dover portare a casa dei soldi lo spinse a conquistare. Come si suol dire, "pecunia non olet".
Dopo la prima autopsia non chiuse occhio per una notte intera. A noi raccontò in maniera "leggera" come il medico legale aveva affondato il flessibile nella scatola cranica. In fondo, a parole, sembrava tutto un gioco e noi, bambini, difficilmente potevano capire il reale disagio nell'affrontare tale scelta di vita.
Il peggior momento però lo ricordo perfettamente. Fu costretto a fare il primo recupero sotto il ponte detto anche "dei suicidi". Un ponte alto 47,5 metri che, nonostante tutti gli accorgimenti (recinzioni alte tre metri e telecamere) ha visto e vede tuttora levarsi la vita parecchie persone l'anno. Beh, quel giorno mio padre non riusciva neanche a parlare. L'avevano chiamato all'alba, intorno alle 4 del mattino. Era rientrato poco dopo pranzo. Non proferì parola, neanche a cena, tornando a parlare con la famiglia solo il giorno dopo che era di riposo per lui.
Ci raccontò di aver raccolto "pezzi di cadavere" sparsi in più parti. Questo era il risultato dello schianto.
Quando successe però, erano già più di sei mesi che mio padre lavorava lì. A parte il trauma di questi eventi "imprevisti" aveva ormai mentalizzato il suo ruolo e, anzi, cominciava anche a piacergli.
Oltre lo stipendio normale infatti si guadagnava parecchi soldi extra. Io non lo sapevo che al cimitero funzionasse così e, mio padre, mi aprì gli occhi sul "business" che comporta. Si partiva dai cento euro che la signora anziana dava come regalo per fare la muratura alla lapide, ai soldi extra per mantenere una cappella privata o alcune tombe pulite fino alla spartizione dei soldi dei fiori. Questa dei fiori è un po' triste ma è, ahimé, vera. Soprattutto per funerali "importanti", tutte le corone di fiori e simili vengono alla fine smontate e rivendute. Sia le strutture che i fiori freschi. Un ritorno economico mica da ridere.
Nonostante il tempo che passava però c'era un compito che proprio non gli andava a genio: le riesumazioni dei cadaveri dalla terra. Forse non tutti sanno che alcuni cadaveri vengono tumulati nella terra con una bara semplice e una lapide scarna. Questi sono solitamente le tombe dei "poveri" o di chi non può permettersi di meglio. Spesso sono persone che non hanno neanche visite e così, dopo vent'anni, le bare devono essere riaperte e quello che rimane viene "buttato" nell'ossario comune lasciando lo spazio "libero" per una nuova tumulazione.
Nonostante le mascherine e le precauzioni per queste operazioni mio padre rimaneva sempre disgustato. Si vedeva, anche a distanza di anni se aveva fatto o no una di queste riesumazioni. La verità è che si scavava senza saper bene cosa aspettarsi. A volte capitavano corpi praticamente "intatti" mentre in altri casi cumuli di cenere ed ossa. Una volta capitò addirittura una bara "esplosa" nel sottosuolo. Probabilmente c'era stata un'infiltrazione d'acqua poco dopo la tumulazione, questa era entrata nella bara. Il cadavere l'aveva assorbita gonfiandosi a dismisura fino a sventrare la bara dall'interno. Beh, solo mio padre può effettivamente capire cosa voglia dire "vivere" quel momento.
Lavorò per quasi cinque anni al cimitero prima d'ottenere il trasferimento in una scuola sempre da quelle parti e poi in un'altra scuola nel paese dove tuttora abita.

Come dicevo all'inizio, la parola "scavare" non mi ha fatto venire in mente nient'altro che lui. Senza cercare storie, senza cercare morali.
I rapporti con i propri genitori sono sempre unici e particolari anche perché, padre e madre non si pussono scegliere. Nonostante tutto mi sento di dirti "grazie".
Chissà, forse un giorno lontano riusciremo finalmente a capire chi aveva ragione su come vivere la propria vita. Forse, quel giorno, scopriremo d'aver sbagliato tutto entrambi.
Grazie ancora.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
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Re: [#5] Scavare (racconti) 31/08/2012 23:57 #6028

VECCHIAIA


La voce acuta e stridente di sua madre lo investì prima ancora che egli finisse di girare la chiave nella serratura, e i suoi muscoli si contrassero all’istante nello sforzo di contenere la spinta centrifuga che improvvisamente investì il suo sistema nervoso.
«Ah! Sei a casa finalmente, scriteriato! Vieni qua, figlio inutile e degenerato!»
Cercò di sgattaiolare in camera sua il più velocemente e silenziosamente possibile, ma la figura materna fu più rapida di lui nel materializzarsi dinanzi a lui nel corridoio.
«Tuo nonno è scappato di nuovo! Hanno telefonato i Rossi, gli ha quasi devastato il giardino! Vallo a recuperare prima che la prossima telefonata sia per la polizia!»
«E magari! Così farebbero quello che dovresti fare tu: rinchiuderlo!»
«Bada a come parli! È mio padre… tuo nonno!»
«E allora vacci tu se è tuo padre, invece di rovinare la mia vita! Io ho da fare!»
Cercò di divincolarsi dal placcaggio di sua madre, ma invano.
«Cosa hai da fare? Gozzovigliare tutto il giorno con quegli altri debosciati dei tuoi amichetti? Muoviti, prima di farmi perdere la pazienza sul serio!»
«Ma ho la partita fra un’ora! Mi aspettano al campetto!» piagnucolò.
«Riporterai tuo nonno a casa e poi andrai a divertirti. Ora sparisci!»
«Un giorno ci starete entrambi in un ospizio, stronza!»
Luca cercò di coordinare il più possibile lo sfogo mormorato fra i denti col fragore della porta chiusa con violenza alle sue spalle, ma a quanto pare non ci riuscì visto che pochi secondi dopo sentì il portone di casa riaprirsi dietro di lui.
«Che cosa hai detto? Torna immediatamente qui! Appena ti prendo avrai tutti i ceffoni che avrei dovuto iniziare a darti quando hai detto le tue prime parole! Mi hai sentito? Torna qua!»

La casa dei Rossi era parecchio distante da casa sua, ma se prendeva il primo autobus forse avrebbe potuto andare e tornare in tempo per poi raggiungere il campetto. Quella, però, non era la sua giornata fortunata: appena svoltò l’angolo vide l’89 sfrecciare davanti a lui.
«Ehi! Ehi! Aspetta! Un attimo!»
Si gettò in mezzo alla strada sbracciandosi e urlando come un forsennato, attirandosi le strombazzate di disappunto di qualche clacson alle sue spalle. L’autobus si fermò qualche metro più avanti per caricare la gente in attesa alla fermata, dopodichè ripartì in tutta fretta, prima che lui riuscisse a raggiungerlo. In un ultimo impeto di rabbia si inginocchiò per raccogliere un sasso davanti a lui e lo lanciò con furia verso l’autobus ormai lontano, mancandolo.
«FANCULO STRONZO!»
Una macchina gli passò accanto e una voce irata lo raggiunse dal finestrino aperto:
«Hai deciso di morire giovane, deficiente?»

Luca odiava gli autobus. C’era una cosa che proprio non capiva degli autobus: erano sempre pieni zeppi di vecchi. Dalle prime luci dell’alba fino al tramonto, tutti gli ottuagenari della città si davano appuntamento su quei cazzo di autobus, su cui salivano con quella loro lentezza esasperante, per poi restare seduti a fissare il vuoto con quegli sguardi malinconici. Ma che avevano da viaggiare tanto? Dove diavolo andavano tutto il giorno, con quei bastoni e su quelle gambe malferme? Cosa mai avevano da fare a parte starsene in salotto su una scriocchiolante sedia a dondolo a guardare programmi per casalinghe in televisione?
Guardò nervosamente l’ora sul telefonino. Non ce la faceva più! Aveva perso quasi mezz’ora per aspettare la corsa successiva e quell’autobus sembrava procedere nel traffico cittadino come i suoi lenti, reumatici passeggeri. Guardò fuori dal finestrino l’autobus superare un anziano col bastone, che immediatamente levò in aria per attirare l’attenzione, cercando di accellerare, per quel poco consentito dalle sue articolazioni, all’inseguimento dell’autobus. Il mezzo raggiunse la fermata successiva e si immobilizzò improvvisamente. Luca guardò ancora l’ora e saettò in piedi.
«Ohè? Ci muoviamo? C’è gente che ha fretta qui!»
Dalla cabina dell’autista proruppe una voce:
«Stai calmo ragazzino! C’è anche gente che deve salire.»
Proprio in quel momento il vecchio col bastone raggiunse affannato l’autobus e iniziò l’ardua scalata del gradino d’ingresso.
«Ah! Sto vecchio di merda vi fermate ad aspettarlo!»
«Guarda che se non ti dai una calmata ti sbatto fuori seduta stante!»
«Ma porca troia! Cammina così piano che finchè è arrivato qui ci ha raggiunto l’autobus successivo! Dove cazzo sta scritto che lo devi aspettare? L’autobus passa e chi c’è c’è.»
L’autista senza una parola si alzò in piedi e spalancò la barriera di plastica che isolava il posto di guida. Con una forza inaspettata lo prese per il colletto della maglia, lo sollevò in aria e lo scaraventò fuori dalla porta.
«Vedi di imparare cos’è il rispetto ragazzino, o finirai male nella vita!»
La portiera dell’autobus si richiuse impietosa davanti a lui lasciandolo a piedi. Steso sul marciapiede e dolorante per la caduta, Luca sentì gli occhi inumidirsi. Con un mezzo singhiozzo si tirò su e infilò le mani in tasca alla ricerca del cellulare.

Il cinquantino sbucò improvvisamente da dietro l’angolo e inchiodò davanti a lui. Una figura femminile, piuttosto snella e con lunghi capelli ricci che sbucavano da sotto il casco gliene pose uno uguale.
«Ehi Marta! Grazie per essere passata. Sai, ho avuto qualche problema con gli autobus e…»
«Nessun problema! Dove hai detto che andiamo? Dai Rossi?»
«Sì…»
«Monta su!»
Luca indossò il casco e si piazzò dietro di lei. Marta partì a razzo.
«Sai, tempo fa guardavo un documentario sugli inuit!» disse ad alta voce per farsi sentire mentre Marta conduceva la moto a zigzag fra una macchina e l’altra.
«Su chi??»
«Gli inuit! Gli eschimesi!»
«Ah! Sì!»
«Bè, sai che fanno? Quando i membri anziani della famiglia iniziano a diventare un peso li mollano su un iceberg che sta per andare alla deriva; poi tanti saluti e arrivederci.»
«Ma è terribile!» Marta inchiodò.
«No. È intelligente. Perché ti sei fermata?»
Marta fece un cenno con la testa:
«Siamo arrivati.»

Il roseto dei Rossi era completamente devastato. Le piante erano state tutti estirpate brutalmente e una buca enorme scavata lì dove prima c’erano le più belle rose del quartiere. Luca continuava a osservarlo dalla finestra, ignorando platealmente l’anziana signora Rossi che lo redarguiva da dietro il tavolo di mogano. Il nonno continuava a sedere rigido accanto a lui, con le scarpe ancora sporche di terra e la grossa pala in mano.
«…E insomma, noi abbiamo grande stima e rispetto per tuo nonno, che è stato un gran lavoratore e ci ha aiutato tanto in passato, ma tua madre deve sapersi prendere cura di lui come si deve, altrimenti…»
«Sì, sì!» Luca si alzò in piedi bruscamente, «ora dobbiamo andare però!»
Si avviò verso la porta, ma la signora Rossi lo fermò.
«Luca aspetta! Ti stai dimenticando questo!»
Si voltò. La signora Rossi gli tese un foglietto.
«Che è?»
«Il conto dei danni!» disse la donna con un sorriso.

«Chi hai detto che sei tu?»
«Tuo nipote, nonno! Sono tuo nipote! Insomma! Si può sapere come sei arrivato fin qui?»
«Con la bicicletta!»
«E dove l’hai messa?»
«Io… Non mi ricordo…» l’anziano uomo abbassò lo sguardo e il tono di voce. Sembrava quasi umiliato dalla situazione, ma Luca reagì soltanto con uno sbuffo esasperato.
«Ho qualche problema a ricordarmi le cose…» mormorò, cercando di giustificarsi. Marta indirizzò all’amico uno sguardo di rimprovero, ma Luca la ignorò.
«E allora dì addio alla tua bici! Andiamo a casa adesso! Mi hai proprio scocciato!»
Luca cercò di trascinarlo via, ma il vecchio si divincolò.
«No, no! Ho da fare! Devo… devo scavare.»
«Hai già scavato abbastanza per oggi mi pare!» urlò furente, indicando il roseto distrutto, «Non posso perdere tutto il giorno appresso a te! Stupido vecchio!»
Marta gli mise una mano sulla spalla:
«Luca!»
«Ascolta, io non ti ho mai chiesto nulla come fratello, ma oggi…»
«Non sono tuo fratello! Sono tuo nipote!»
«Ah! Sì… Dicevo… Cosa hai detto che sei? Mio figlio?»
«Oh! Maledizione!»
All’improvviso il volto del vecchio si illuminò: «…Al vecchio granaio!»
«Che?»
«La bicicletta… L’ho lasciata al vecchio granaio!»
«Eh? Ma figurati se te lo ricordi, stupido vecchio…»
Marta intervenne: «Non è lontano, possiamo andare a vedere!»

Il sole tramontava piano davanti a loro, mentre procedevano sulla vecchia strada sterrata che si inoltrava fra i campi coltivati. Il nonno di Luca procedeva avanti a loro, a passo deciso. Nonostante l’età aveva ancora un fisico di tutto rispetto. Marta e Luca lo seguivano a distanza.
«Ma insomma, ogni volta che riesce ad uscire di casa lo fa per andare a scavare in giro per la città?»
«Hm… Già…»
«E non gli avete mai chiesto perché?»
«Ma cosa gli vuoi chiedere? È pazzo!»
«Non è pazzo. Ha l’Alzheimer.»
«Appunto. È pazzo.»
Marta alzò gli occhi al cielo.
«Ehi, dove è andato?»
I due guardarono il sentiero davanti a loro. Il nonno l’aveva improvvisamente abbandonato per dirigersi a passi svelti verso la fattoria del vecchio Ginsieri. Prima che riuscissero a raggiungerlo il vecchio aveva già iniziato a sradicare tutte le piante di pomodori.
«Oh maledizione! Falla finita con quella pala! Non c’è nessuna bici qui vero? Adesso ce ne andiamo a casa!»
«Taci figlio! Ho da fare!» Con uno strattone si liberò dalla presa di Luca e tornò ad accanirsi sul campo di pomodori.
«Non sono tuo figl… Oh! Fanculo! Vuoi farti ammazzare da quel pazzo del Ginsieri? Fai pure! Io me ne vado!»
«Luca! Mica lo puoi lasciare qui!»
«E che dovrei fare? Non mi segue! Appena il Ginsieri lo vedrà devastare il suo campo inizierà a spararci contro! Restiamo qua a guardarlo scavare?»
«Lo hai mai fatto? Voglio dire… Di solito tu arrivi e lo porti via, non lo hai mai lasciato fare?»
«Ah! Dovrei lasciarlo fare? Al diavolo!»
Si allontanò a passi svelti verso il sentiero, quando la voce di Marta lo richiamò da lontano.
«Ehi! Guarda! Sembra che abbia trovato qualcosa!»

Il nonno continuava a rigirarsi quella scatoletta di legno fra le mani. Luca guardava preoccupato alternativamente lui e la porta del casale in lontananza, temendo forse di vedervi sbucare all’improvviso il vecchio Ginsieri col fucile, quando improvvisamente il nonno aprì la scatoletta rivelandone il contenuto; Luca riuscì a vedere un piccolo fiocco rosso, un pupazzetto a forma di ballerina e quella che sembrava una ciocca di capelli. Il nonno all’improvviso cominciò a parlare:
«Sai, c’era una ragazza quando ero piccolo. Ne ero innamoratissimo. Lei era così graziosa, me la ricordo come se fosse ieri. Aveva degli splendidi capelli ramati, che le scendevano in dolci ricci fino alle spalle, degli occhi che sembravano due zaffiri e delle lentiggini davvero graziose a incorniciarli. Tutto il suo visino era grazioso: con quel nasino alla francese e quella boccuccia impertinente… Come la arricciava quando si arrabbiava! Avresti dovuto vederla! Diventava tutta rossa, socchiudeva gli occhi e arricciava la bocca! Ah ah ah! La adoravo! E ricordo che portava quasi sempre degli abitini che si allacciavano da dietro, sulla schiena. E spesso per gioco io mi divertivo a scioglierle il fiocco che li chiudeva, magari sperando fra me e me che l’abito le cadesse giù e mi mostrasse le sue grazie, ma quell’abito non cadeva mai… Mai… Un giorno partì. I suoi genitori si trasferirono e lei dovette seguirli. Era un giorno di primavera, me lo ricordo come fosse ieri. Gli alberi erano in fiore, però faceva freddo; quella mattina aveva piovuto e l’erba era tutta bagnata. Ci promettemmo di ritrovarci il prima possibile, ma sapevamo entrambi che non sarebbe successo, così prima di dirle addio la convinsi a darmi qualche suo ricordo. Poi lo misi in questa scatola e la seppellii qua sotto; è il luogo in cui la baciai per la prima volta. L’ho cercata tanto! Le promisi… Le promisi che non l’avrei mai dimenticata. E non l’ho fatto.»
Luca lo ascoltò parlare a lungo, forse per la prima volta. Alla fine si avvicinò a lui e gli tese la mano:
«Dai nonno, andiamo a casa.»
«Uhm… Chi hai detto che sei? Mio figlio?»
«Sì… Tuo figlio. Bravo.»
La vecchiaia proprio non la capiva.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 01/09/2012 00:26 Da Titivillus.
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