"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto." (Italo Calvino)
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ARGOMENTO: [#1] Il ritorno (racconti)

[#1] Il ritorno (racconti) 24/01/2018 17:53 #18134

"Niente come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati."
(Nelson Mandela)



Il ritorno è il tema della prima tornata di UniVersi 8, c'è tempo fino al 28 febbraio 2018 compreso per postare il proprio racconto in gara.

Ricordatevi che:
- Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 12.000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito.
- I racconti devono avere un proprio titolo e devono essere postati in forma anonima, effettuando il login con nome utente Titivillus e password universi.
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RACCONTI IN GARA

- Il ritorno dei filantropi (3218)
- I codardi tornano a casa (6394)
- Punto di non ritorno (5327)
- Sin City (8002)
- La notte dei cristalli (5998)
- Vendetta (11958)
- Una giustificazione in versi (432)
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Fortunatamente, ho sempre il difetto di prendermi poco sul serio...
[cit. Carmen Consoli - Fortunatamente]
Ultima modifica: 07/08/2018 18:24 Da Tavajigen.
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Re: [#1] Il ritorno (Racconti) 01/02/2018 21:32 #18183

Il ritorno dei filantropi

Ce l'avevano fatta.
Dopo numerosi sforzi e diverse peripezie erano riusciti a far salire le settecento e più caprette che, nella loro beata ignoranza, stavano distruggendo l'isola.
Ebbene sì, l'esperimento di ripopolare quel fazzoletto di terra con le famigerate caprette aveva avuto più successo del previsto, trasformando le stesse in una piaga piuttosto che in una risorsa.

La prima proposta, quella di effettuare una sopressione mirata, era stata subito cassata, bocciata o boicottata dalle principali associazioni animaliste che non volevano che l'umanità si macchiasse anche di questo crimine.
Quindi perché non riportarle in un continente e darle in affido?
Al grido di «Assassini, assassini» e di «salviamo le capre» avevano lanciato una petizione con annessa raccolta fondi e ricerca di volontari.

Fu proprio quest'ultimo appello a raggiungere l'effetto desiderato.
Un filantropo moderno, amico degli animali, prese la decisione di prestare il proprio quarantadue metri a tre piani, battente bandiera di un qualche paradiso fiscale; decise anche di investire per allestire il tutto secondo criteri precisi che confacessero al meglio le condizioni dei poveri animali.
Un salvatore che, guarda caso, di li a poco avrebbe gareggiato alle prossime elezioni nazionali.
"Coincidenze o perlopiù illazioni delle solite malelingue" continuavano a dire quelli che a quelle capre ci tenevano per davvero.

Così salpò, come una moderna arca di Noè, alla volta del porto del continente in quello che sarebbe diventato un ritorno di gloria.
Tutti gli occhi dei mass media erano puntati sull'evento straordinario, specialmente di quei mass media che erano in un qualche modo collegati alla holding del filantropo in questione.
Non solo: era riuscito anche a vendere i diritti per la realizzazione di un documentario a puntate ed addirittura l'esclusiva in diretta dell'evento ad una pay-tv.

Durante la diretta accadde però l'imponderabile.
La quarantadue metri, tronfia delle sue capacità esplosive, procedeva a tutta velocità lungo la propria rotta quando, all'improvviso, incrociò quella di un gommone malandato.
A bordo uomini, perlopiù giovani se non giovanissimi, e donne, alcune anche gravide. Erano stivati tutti pressati, con volti scavati in viso, logori dalla stanchezza e da giorni abbandonati a se stessi e ad una morte quasi certa.
La pay-tv provò a correggere l'inquadratura, stringendo per quanto poté sul quarantadue metri; provò anche con l'invio della pubblicità, ma il danno era irrimediabile.
In un attimo, su tutti i principali social, non si fece che parlare d'altro.
Si scatenò il solito putiferio: chi sosteneva che se ne dovevano tornare a casa loro e che stavano ostacolando le capre, chi chiedeva di salvare tutti facendoli salire a bordo.

La verità è che posto per tutti non c'era e bisognava quindi rinunciare o alle capre, o ai volontari, o a qualche essere umano.
Lanciarono quindi un televoto, di quelli a pagamento, in cui si chiedeva al popolo chi volevano salvare: "le capre e i volontari" oppure "gli altri esseri umani"?
Fu così che quella nazione, quel giorno, decise quale strada percorrere da lì al resto dei giorni, macchiandosi comunque di quello che ritenne il crimine minore.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Re: [#1] Il ritorno (Racconti) 27/02/2018 16:17 #18199

I codardi tornano a casa

Andrea cammina col passo sicuro e la testa bassa. Prima destra, poi ancora destra, poi sinistra, e improvvisamente si ritrova sul Ponte Palatino. Le luci della città rimbalzano nel cielo e formano uno strano tepore rossastro. Ponte rotto è lievemente illuminato e sotto tutto scorre tranquillo, qualche ubriaco urla nella notte che è fredda da lontano, una sirena riverbera tra i vicoli e arriva distorta alle finestre, dove quasi tutti dormono, dove qualcuno guarda la strada aspettando, dove in pochi alzano lo sguardo al cielo e cercano le stelle.
Andrea accendo una Lucky strike rossa e fa un sospiro profondo, si siede sul parapetto col vuoto di fronte e chiude lentamente gli occhi.
-
Davanti a lui c’è Anna, con la faccia distorta dalla rabbia, che urla qualcosa che nessuno riesce a sentire. Nella casa aleggia un silenzio irreale, un vacuo momento in cui tutto sembra immobile, in cui il mondo non gira su se stesso e il crepuscolo è perpetuo. Fischia la teiera in cucina, e Anna come d’incanto sembra svegliarsi dal suo sonno fatato. Ora il suo viso è così dolce, angelico, senza macchia. Prende una tazza sola e versa l’acqua, il thè, lo zucchero. Gira lentamente il cucchiaino mentre con la testa fa piano piano su e giù. Con i raggi dell’ultimo sole che passano attraverso le tapparelle, si vede la polvere nell’aria che fluttua immobile.
“Anna, ce n’è un po’ per me?” chiede Andrea. Anna non risponde, non fa neanche un cenno. Non sembra ignorare Andrea, pare proprio nemmeno aver consapevolezza della sua presenza. Improvvisamente, Andrea si sente come un ospite in casa sua, ma non un ospite indesiderato. Andrea non c’è, non c’è per Anna. Finisce il thè, ed Anna è ancora seduta al tavolo. Si alza dolcemente e va nello studio. Andrea la segue, ma Anna ancora una volta pare non accorgersi di lui. Lei prende carta e penna ed inizia a scrivere.
“Che stai facendo, Anna”, ancora. Ma lei è assorta, lei è sola, e nessuno la sta guardando, nessuno sa che lei sta scrivendo. Andrea si avvicina e la chiama, ma ancora una volta, Anna non sente. Fa per posare gli occhi sul foglio.
-
Un urlo nella notte fa riaprire gli occhi ad Andrea. La Lucky strike è spenta e la cenere è volata via con la leggera brezza che tira sul ponte. Sotto il Tevere scorre lento nel suo letto e non si cura di tutto ciò che succede intorno. All’orizzonte, dietro il profilo dei palazzi, si incomincia ad intravedere una luce, molto molto fioca. Manca ancora tanto all’alba. Su un pontile, a poche centinaia di metri, una luce rossa intermittente si accende e spegne senza posa e via via diventa più sfocata.
-
Anna chiude la lettera bagnandola piano con le labbra e sbatte la porta alle sue spalle. Andrea apre la porta e la vede di nuovo. La linea 1 della metro oggi è più trafficata del solito. Tutte le scimmie, nella metropolitana, si aggrappano e si spulciano mentre aspettano di scendere. In quel tumulto nessuno nota che che ormai il treno non viaggia che su binari immaginari, che vagano chissà dove nel cosmo infinito. Come fanno a non accorgersi di ciò che accade? Come fanno a rimanere calmi in tutto questo? Fuori, da lontano, Andrea vede una luce rossa, ben visibile nel nero del cielo, che si avvicina sempre di più. Neanche il tempo di pensare a qualcosa che la luce avvolge il treno, e le scimmie, ancora, non fanno una piega. Se ne vanno così, assorte in non si sa quale mistico sonno dal quale sembra non esserci risveglio. Semplicemente cessano di esistere, senza rumore, senza angoscia, senza preoccupazione, senza rimorso.
Anna è ancora seduta in cucina da sola, la teiera fischia ancora e lei non se ne cura. Una lettera chiusa è appogiata al bordo del tavolo e sembra illuminata da un raggio eterno di crepuscolo. Andrea parla e non riesce a sentire la sua voce. Anna è assorta, nel vuoto. Ecco, il vuoto, pensa Andrea. E’ come se avessero privato quel luogo di aria, di vita, di emozioni, di tutto ciò che abbiamo. Cosa ne rimane? Il vuoto totale, un posto in cui possiamo tornare e ritornare, dal quale possiamo nasconderci ma che non possiamo nascondere.
Anna si alza e apre la persiana. Una luce bianca inonda la stanza e Andrea è costretto a ripararsi gli occhi con il braccio.
Un prato verde, enorme, sconfinato, pieno di trifogli adesso si staglia davanti ai suoi occhi e Anna corre allegra e spensierata. Andrea raccoglie un papavero ancora un po’ bianco e si avvicina. Anna inizia a correre e si inoltra nel folto degli alberi. La sua voce gioiosa risuona allegra e rimbomba al ritmo dei suoi passi ed Andrea la segue. Quando sembra averla ormai persa, sente di nuovo la sua risata. La vede, tra gli scorci degli alberi, su di un ponte, sopra il Tevere, che guarda un uomo che vuole buttarsi giù. Per la prima volta, Anna sembra accorgersi della sua presenza. Si gira, e la sua espressione gioiosa è ormai diventata un sorriso amaro, che piano piano si spegne, che muore e si trasforma in dolore. Una folata di vento debole le muove i capelli, e lentamente la spazza via. Anna è cenere che si disgrega e come cenere, ormai, se ne va nella brezza.
L’uomo sul ponte si gira, ed Andrea vede il riflesso di se stesso, che lo saluta e si butta. Andrea corre come un forsennato, raggiunge il bordo e si tuffa anche anche lui. Il tempo rallenta di nuovo mentre cade. Vede l’uomo che gli sorride , malinconico, mentre lentamente viene ingurgitato dal flusso inesorabile del fiume.
Sott’acqua è tutto scuro, la corrente è fortissima e non si vede quasi nulla. Mentre affoga con gli occhi aperti, un senso di pace lo pervade. Lontano, nel calore dell’oscurità, sopra la superficie, una luce rossa ancora lampeggia intermittente e si fa sempre più vicina. Espira un ultima volta, nonostante sappia che non potrà più respirare, e ancora una volta nel vuoto, chiude gli occhi e si lascia portare dalla corrente chissà dove. Lasciatemi qui, pensa.
-
Andrea apre gli occhi, la brezza sul ponte ancora tira e si riescono ad intravedere i primi raggi del sole coperti da una leggera foschia mattutina. La luce rossa ormai è spenta. Ancora seduto sul parapetto, gira le gambe, mette i piedi a terra, e si incammina verso casa accendendo un’altra sigaretta. Si ferma un secondo, guarda il Tevere che ancora scorre, mette le mani in tasca e tira fuori le chiavi e una lettera ancora chiusa. La rimette in tasca e continua a camminare. Alla fine di tutto, pensa, i codardi tornano a casa.
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Re: [#1] Il ritorno (Racconti) 28/02/2018 00:32 #18200

Punto di non ritorno

Il continuo, martellante suono del cancelletto degli arrivi che si apre è forse l’unica cosa che mi tiene sveglio, concedendomi solo uno stato di sospensione, una catarsi vuota, di quelle che intorpidisce ma non riposa. Un risplendente esempio di ingegneria tedesca, senza dubbio: ogni volta che una persona esce dal gate degli arrivi parte quel trillo sottile e per niente fastidioso, rassicurante, assolutamente necessaria conferma che qualcuno è riuscito a recuperare i bagagli.

È una sera tarda nell’aeroporto di Francoforte. L’autobus arriverà tra un paio d’ore, promettendo una notte di bestemmie, freddo e di ben poco sonno. La folla si va assottigliando con il passare del tempo, volti senza nome e senza storia che da qui vanno lì o viceversa, che partono o che arrivano, fantasmi, estranei. Qualche barbone si aggira tra le sedie della sala d’aspetto, torcia elettrica alla mano, frugando nei cestini alla ricerca di bottiglie vuote. In Germania i vuoti valgono venticinque centesimi. Qualcuno prova a chiedere una sigaretta o qualche moneta, ottenendo da me una risposta a mezza bocca in spagnolo, giusto per evitare che parlino inglese. Francoforte mi ha sempre colpito per l’estremo degrado a cui sa arrivare in alcuni quartieri popolari, sconvolgente in confronto alla ricchezza della città. C’è una via che scende dalla stazione centrale -una delle aree più losche e tristi al mondo- verso il Meno, passando per un quartiere dove anche i gatti sono bigi. Si attraversa una strada, e all’improvviso si passa da ristoranti pakistani poco raccomandabili e negozi che offrono telefonate all’estero a grattacieli, bistrot e banchieri in giacca e cravatta che camminano con un palo in culo e sbaffi di coca sotto il naso.

Il trillo maledetto continua, marcando uno ad uno gli arrivi. In media un aereo atterra ogni quindici minuti, con un centinaio di passeggeri a testa. Questi passeggeri arrivano alla spicciolata, dopo aver recuperato le valigie o superato il controllo passaporto. Una media di otto passeggeri al minuto, ciascuno causante un trillo di cinque secondi, una distribuzione che stocasticamente riempie tra i dieci e i sessanta secondi al minuto con quel suono. Dormire è fuori discussione, tanto vale darsi un tono leggendo.

Trascorrere qualche ora in aeroporto, una volta superati il fastidio per il cellulare scarico, la scomodità, la puzza e il feroce desiderio di essere al caldo sotto le coperte, è un’esperienza interessante. Intere vite si possono dedurre o supporre in pochi secondi, relazioni intuire e ricostruire. Sogni, problemi, paure diventano irrilevanti, sottoposti all’occhio analitico e quasi scientifico dell’osservatore. Lingue diverse si affastellano, cibi e culture si sgranano.

Un uomo e una donna sulla quarantina sono ormai da una buona mezz’ora in piedi davanti al cancelletto degli arrivi. La mia attenzione era stata interamente rivolta al culo di una ragazza dall’aspetto mediorientale, ma il cartello che i due si sono messi maldestramente a srotolare mi ha incuriosito a sufficienza. Mi è impossibile leggere da qui, troppo lontano, e avvicinarsi è fuori discussione: è come se i due fossero in Cina. Del resto il messaggio sarà probabilmente in tedesco, e vai a capire. Sarà un bentornato, siamo felici di riaverti per Natale. Il primo pensiero è che quella persona tornerà a casa al caldo in una BMW, non al freddo in un flixbus di otto ore come uno stronzo. Come il sottoscritto. La curiosità si evolve in una sottile invidia. Il mal di testa, il poco sonno e molto probabilmente il trillo del cancelletto fanno salire anche un’altra strana emozione, una novità. Sembra un sottile velo di tristezza. A me, chi mi aspetta?

Poggiato sulle ginocchia, On the Road di Kerouac. Letto già cinque volte. La figura di Dean, proteso sul volante, completamente assorto nel viaggio -non nel punto di arrivo, nell’assoluta necessità di muoversi, di cambiare, psicopatico bisogno di azione. Come lui, spero a un livello meno patologico, anche io. Non c’è una città al mondo dove qualcuno mi aspetti la notte all’aeroporto srotolando cartelli. La claustrofobia, la fame di aria, la libertà hanno soffocato la casa pur di non essere soffocate dal guinzaglio. E dove non c’è casa, non c’è ritorno.

Il mal di testa è diventato emicrania, lama piantata nel cranio tra occhio destro e tempia. Il trillo continua, incessante, implacabile. I due aspettano. Due ore intere. A questo punto la curiosità di vedere chi tirino su è irresistibile. E poi eccola, in un trillo come milioni altri prima del suo, un sorriso un po’ impacciato e sicuramente stanco in risposta al cartello aperto maldestramente e un paio di secondi troppo tardi. La ragazza più anonima del mondo, leggero sovrappeso, sneakers e jeans con i risvoltini con fuori tre gradi e acqua a secchiate. La ragazza più anonima del mondo, che ritornerà a casa al caldo nella BMW dei genitori, senza nemmeno farci caso.

Fuori fa un freddo della madonna, ma tocca capire dove sia la fermata dell’autobus perché perderlo e passare la notte all'aeroporto è fuori discussione. Zaino in spalla, la cinghia sul davanti che sega delicatamente il petto e appesantisce il respiro, occhi a terra per evitare di attirare attenzioni poco raccomandabili. Si riparte. La domanda è se mai si arriverà da qualche parte.
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Re: [#1] Il ritorno (Racconti) 28/02/2018 15:28 #18201

Sin City


Rialzò l’aletta parasole e godette del riverbero dei raggi riflessi dalle rocce del deserto, il cruscotto segnava 41° centigradi. Si aggiustò il cappello da cowboy e sentì alcune gocce di sudore scorrere dalle ascelle sulle costole. Che spettacolo questo sole, fanculo a Salt Lake City e al suo freddo di merda. Pensò schiacciando sull’acceleratore.
La mustang sfrecciava su un rettilineo infinito, in mezzo al nulla dell’Arizona, circondato da cactus e arbusti rotolanti. La luce però aveva un colore strano, forse innaturale.
Da quanto percorreva quella strada? Non lo ricordava esattamente, ma la cosa non gli interessava; l’importante era mettere più chilometri possibili tra loro due. Quella stronza.
Ad un tratto scorse un bagliore all’orizzonte, immaginò subito cosa fosse. Studiò per un attimo il cruscotto e capì che era giunto il momento di fermarsi a fare benzina.
Il distributore era talmente vecchio da sembrare sul punto di cadere a pezzi. Un vecchio Navajo col cappellino da baseball e la tuta da meccanico sgualcita e polverosa si avvicinò al finestrino.
“Hey, quanto?”
“Il pieno, indiano.”
Il contagalloni girava e girava, mentre Nathan osservava il distributore. Il suo sguardo si posò sull’emporio gestito dal nativo e quel posto gli sembrò familiare, ma sì, in fondo assomigliava molto ad un luogo a cui non pensava da tanto tempo…
“Nathan, è pronto il pranzo, vieni dentro!”
“Arrivo, mamma!”
Il piccolo Nathan osservò per qualche secondo il ristorante e decise di farsi l’ultimo giro sullo skateboard prima di rientrare, pur sapendo che avrebbe fatto arrabbiare i suoi genitori per il ritardo. Accadde tutto in un attimo: l’auto che lo sfiorò inchiodando davanti al locale, i tre uomini col passamontagna e la pistola in mano che sfondarono la porta con un calcio, le urla e gli spari, la macchina che ripartì in una folle fuga, il silenzio.
Prese lo skate in mano e si avvicinò alla porta, pendente su un solo cardine. Guardò dentro e vide il sangue.

“Cowboy...sono trentasette dollari. Ehi, cowboy!”
Nathan sbatté gli occhi e guardò l’indiano confusamente, poi tirò fuori il contante.
“Ah...sì certo, ecco qua.”
La mustang ripartì sgommando in una nuvola di polvere.

Si svegliò per il freddo. Cercò la coperta nel buio e la vide a terra, si chinò a prenderla e se la tirò sopra, racchiudendo le gambe al petto. La poltrona era piuttosto grande ma scomoda; si girò più volte su se stessa per cercare una posizione migliore, provando fastidio quando i lunghi capelli si incastravano dietro le sue spalle.
Da quante ore si trovava lì? Non se lo ricordava, ma non le importava più. Sentì la gola secca e capì che non sarebbe riuscita a riaddormentarsi senza aver prima bevuto qualcosa, quindi si costrinse ad alzarsi.
Percorse in silenzio il corridoio e giunse al distributore automatico, che risplendeva nella luce soffusa. Annah passò lo sguardo sulle tante bibite offerte, i suoi occhi però non videro i drink analcolici, ma birra, solo birra; ormai immaginava birra dappertutto. Scoppiò a piangere. Ti odio! Bastardo, tu e le tue maledette birre. Hai rovinato tutto, hai rovinato tutto...
Cadde in ginocchio e pianse per qualche minuto, poi si mise a sedere sul pavimento, fissando il vuoto. Un anonimo quadro ritraeva un’isola molto famosa, all’interno del golfo di San Francisco, col Golden Gate sullo sfondo; la sua mente fece un balzo all’indietro…
“Vieni subito qui, puttanella. Se tua madre fosse ancora viva quanta vergogna che proverebbe.” Annah cercò di sfuggire alla furia del padre.
“Ora basta! Ho diciotto anni e sono libera di uscire con chi voglio!” La sberla la raggiunse dritta in faccia e non poté fare altro che cadere a terra.
“Brutta sgualdrina da quattro soldi, vuoi finire anche te in prigione come tuo padre? Tutte le troie come te prima o poi ci finiscono, insieme a questo ragazzetto smidollato. Sì sfigato, dico a te, vuoi andare ad Alcatraz? Io ci sono stato, è un nel posto sai?” L’uomo buttò a terra la bottiglia vuota di Jack Daniel’s e si tolse la cintura. “Te la sei scopata di gusto mia figlia eh? Ora ci penso io a te.”

Il motore di raffreddamento del distributore si azionò, riportandola al presente.

Faceva davvero caldo ora; il sole gli sembrò più grande, forse lo era. Poi di colpo si trovò in galleria. Che strano, un tunnel nel deserto, quando ci sono entrato? L’afa si fece soffocante, alzò al massimo l’aria condizionata e si accese una sigaretta, fissando il bagliore lontano che indicava la fine del traforo. Alla radio il buon Elvis stava cantando Viva Las Vegas.
Ecco, lì dovrei andare, a Las Vegas. A scoparmi una bella fica, a sputtanare qualche dollaro a poker e a sbronzarmi fino al mattino, invece di perdere tempo con una come te.
Scacciò le lacrime dagli occhi e alzò il volume.

Annah finì la coca-cola, rientrò nella stanza e si rannicchiò nuovamente sulla poltrona, dando un’occhiata fugace al letto.
“Te lo chiedo per favore, non facciamo gli stessi discorsi anche stasera, ho lavorato tutto il giorno e sono stanco.” Nathan aprì il frigo, stappò una bottiglia e ne tracannò più di metà.
“Ecco bravo, beviti un’altra birra, tanto fai sempre così tu, no? Quando iniziamo a parlare ti nascondi dietro l’alcol. Non affronti mai la cosa, non ne hai le palle.”
“Te l’ho già detto mille volte, non lo voglio un figlio ora, non siamo pronti.”
“Lo dici tu che non siamo pronti, forse sarai te che non sei pronto!” Annah gli si mise davanti, puntandogli un dito sul petto.
“E se anche fosse? Forse sì, sono io che non sono pronto. Non sono pronto a mettere al mondo un figlio qui, in questo quartiere di merda, pieno di delinquenti e senza alcun tipo di avvenire.” Scolò la birra e se ne aprì un’altra, la quinta della serata.
“Nathan, ti prego! Non puoi vivere così, sei bloccato dalla paura di vivere, sei ancora fermo a quello che è successo ai tuoi genitori tanti anni fa...devi cambiare, devi dare una svolta alla tua vita, alla nostra vita. E basta con quelle cazzo di birre, ora mi hai rotto!” Annah gli strappò la bottiglia di mano e la rovesciò nel lavello della cucina.
“Ferma!” Quando riuscì a bloccarla, la birra era ormai persa. Lui alzò la voce.
“Ti lamenti di me, ma tu vivi ancora nell’ossessione di tuo padre, un alcolizzato che ti picchiava. Un delinquente che sarebbe dovuto restare in carcere a vita!”
Annah lo guardò intensamente. “Vattene, esci da questa casa.”
“E così sia.” Nathan prese le sue cose e un altro paio di birre, e uscì sbattendo la porta. Dopo qualche secondo il silenzio fu rotto dal rombo di una mustang che partiva all’impazzata.


Elvis aveva finito di cantare il suo pezzo da un po’ ormai, ma Nathan non aveva finito le lacrime.
Quella canzone li aveva accompagnati durante il loro viaggio di nozze. Guardò nell’infinito tunnel davanti a sé, la luce dell’uscita sembrava più forte; ma era strana, maledettamente strana.
Provò paura; il terrore dell’ignoto, di non farcela. D’improvviso capì dov’era in realtà, capì dove stava andando. Si avvicinò al bordo della strada e tirò il freno a mano; la macchina fece un’inversione di 180 gradi, sfiorando la parete della galleria, e Nathan cominciò la sua corsa di ritorno.

Annah non sarebbe più riuscita a dormire quella notte, lo sapeva, e non per colpa della scomoda poltrona. Ci sono immagini e suoni che non potranno mai cancellarsi dalla mente di una persona, e che spesso ritornano a cicli, una dopo l’altra. Per lei erano l’agghiacciante schianto dell’incidente sotto casa, l’affacciarsi alla finestra con un terribile presentimento, la mustang distrutta, la corsa in ospedale, l’operazione di ore e ore.
Lo guardava, suo marito Nathan, su quel letto con le flebo al braccio, in coma. Non poteva essere quello suo marito, non voleva che fosse quello.
Un timido raggio di sole entrò dal vetro della finestra, era l’alba. L’ultima alba che avevano visto insieme era stata durante la luna di miele, nella città del peccato.
Vivaaaaa Las Vegas… Le tornò in mente quella canzone, non sapeva perché, poi capì.
Nathan stava aprendo gli occhi.
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Ultima modifica: 28/02/2018 15:29 Da Titivillus.
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Re: [#1] Il ritorno (Racconti) 28/02/2018 22:07 #18202

La notte dei cristalli

L’ultima volta che vidi mio padre ero una bambina di tre anni, naturalmente non ricordo quel giorno, vive nella mia memoria attraverso i racconti di mia madre, ma ne conosco la data: il 7 novembre del 1914.
La Germania dopo la sconfitta sulla Marna portò altri uomini al fronte, tra i quali, appunto, mio padre. Quella che doveva essere una guerra lampo divenne però una guerra di trincee in cui gli uomini vivevano come topi. I più fortunati morivano per l’esplosione di una bomba o per un proiettile vagante, i meno fortunati per le esalazioni del gas al cloro.
MIo padre venne dichiarato disperso dopo la battaglia di Montdidier-Noyon nel giugno del 1918, a un passo dalla sconfitta della Germania e dalla fine della guerra, che avvenne a settembre.
Furono anni difficili quelli che seguirono, per tutto il popolo tedesco. La crisi economica alla fine degli anni ‘30 aveva messo in ginocchio la popolazione. La mia famiglia si adeguava come poteva e io e mio fratello cercavamo di portare qualcosa a casa.
Io, oltre a studiare dattilografia, lavoravo come domestica presso i Rosenthal, una famiglia ebrea che aveva un rinomato negozio di stoffe a Berlino. Era una famiglia per bene e avevano da poco avuto una bimba di nome Rachele alla quale ero molto legata. Poi avvenne qualcosa che cambiò tutto.
Nel 1934 ero fidanzata con un ragazzo di nome Hans, aveva fatto parte della gioventù hitleriana e voleva entrare nell’esercito. Hitler era diventato presidente del reich.
A settembre io e Hans eravamo di ritorno dal raduno di Norimberga “Il trionfo della volontà”, non che a me interessasse la politica, ai nostri tempi l’unico insegnamento che noi ragazze ricevevamo era l’obbedienza, non eravamo certo spinte a ragionare più di tanto, ma Hans era un convinto sostenitore delle idee nazionalsocialiste. Naturalmente non dissi mai nulla ai Rosenthal del fatto che andassi ai raduni con Hans, perchè avrei dovuto farli soffrire per idee che neanche mi appartenevano?
Fu proprio di ritorno da Norimberga che lo ritrovai a casa. Era un uomo alto e molto magro, con un grande naso aquilino e i capelli biondi e grigi tagliati a spazzola. Dimostrava molti più anni di quanti ne aveva e i suoi occhi cerulei non guardavano mai direttamente nessuno. Era in piedi accanto a mia madre, che piangeva e rideva allo stesso tempo. Mio fratello Karl me lo aveva anticipato alla porta dicendomi “E’ tornato” ma io non avevo capito esattamente di chi parlasse, quando entrai in cucina e lo vidi però compresi. Fu lui ad avvicinarsi e ad allungare la mano per salutarmi come si salutano con cortesia due estranei, dicendo “piacere io sono suo padre, Albrecht”. A mia volta mi presentai e presentai Hans. Per quella sera fu tutto. Lui andò nella stanza da letto e ne uscì solo l’indomani.
Era stato prigioniero in Francia, poi era tornato in germania e internato in vari ospedali e sanatori mentali, per i traumi dovuti alla guerra aveva perso la memoria. Ci vollero anni perché tornasse nel pieno delle sue facoltà. Forse l’unica cosa che lo aveva aiutato in questa odissea era l’istinto di sopravvivenza. Finché un giorno, anni dopo comunque l’aver recuperato tutti i suoi ricordi, si decise a tornare a casa. Un giorno mi confessò che non era stato facile, riteneva l’ipotesi di non essere accettato peggiore dell’idea di essere ritenuto morto. Per questo aveva aspettato tanto a dire ai medici di aver recuperato la memoria, per paura. Si dimostrò comunque una persona affidabile, anche se schiva e introversa. Riprese a lavorare in una falegnameria dando così il suo contributo a casa. Non parlava mai di politica anche se una volta lo vidi gettare nella spazzatura una copia del “der Stürmer” lasciata da Hans con grande disprezzo. Quando gli chiesi perché l’avesse gettata mi disse che aveva conosciuto molti ebrei che avevano perso la vita durante la guerra nell’esercito tedesco, e che
questa campagna antisemita era disgustosa.
Disprezzava anche Hans, si allontanava da lui ogni volta che entrava nel suo campo visivo. Odiava la sua fissazione per il partito nazionalsocialista e Hans spesso lo irritava coi suoi discorsi sulla superiorità della razza ariana. A volte si chiudeva nella stanza da letto e non usciva per giorni, Solo Dio sa cosa doveva aver passato durante la guerra, la prigionia e gli internamenti.
Quando furono emanate le leggi di Norimberga dovetti smettere di lavorare dai Rosenthal. L’ultima volta che andai a casa loro per salutarli chiesi oro perché non andassero via dalla germania, mi risposero che quella era casa loro e che tutto si sarebbe aggiustato. Rachele aveva ormai otto anni ed era una bellissima bambina, Piansi tanto quando tornai a casa.
Dopo l’assassinio di Ernst Eduard vom Rath a Parigi furono attaccate le sinagoghe di Kassel, Bad Hersfeld e di Mesusugen. Gobbels il 9 novembre del ‘38 incolpò gli ebrei della norte di vom Rath e anche se disse che il partito non organizzava rappresaglie ma disse pure che non avrebbe fatto nulla per fermarle.
Quella sera Hans, che era oramai in odore di SS, girava per le strade del quartiere con il suo gruppo di camerati infrangendo vetrine, bruciando case e arrestando ebrei. Sapevo che sarebbe andato anche dai Rosenthal, li odiava più di tutti perché per necessità avevo servito da loro. Corsi a casa loro per avvertirli, per dare loro una possibilità di fuga. Quando arrivai era tardi, già Hans era dentro casa. I Rosenthal erano fuori, tenuti legati e in ginocchio dagli sgherri di Hans. Mancava Rachele e capii che era ancora dentro e che Hans la cercava. Entrai. C’era fumo dovuto alle suppellettili alle quali era stato dato fuoco, sentii la voce di Hans arrivare dalla stanza in fondo al corridoio, chiamava Rachele. Corsi attraversai di corsa il corridoio ma mi bloccò il suono di un colpo di pistola. Mi arrestai, chiedendomi se avessi avuto la forza di guardare, attraverso la soglia della porta vidi Hans disteso a terra e mio padre che teneva abbracciata Rachele, con la pistola fumante ancora in mano.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Re: [#1] Il ritorno (Racconti) 28/02/2018 23:12 #18203

VENDETTA

Dieci anni fa ero seduto proprio su questa scalinata. Ricordo ancora le sensazioni di quei momenti, sono impresse nella mia mente, indelebili. Il sole mi scaldava la faccia, era una bellissima giornata di primavera. Invece di recarmi al solito ristorante per la pausa pranzo, decisi di fare una passeggiata per Roma, senza una meta e finii per sedermi sulla scalinata di Piazza di Spagna. Era una visione incantevole, dietro Trinità dei Monti che torreggiava sulle splendide azalee in fiore, davanti la fontana del Bernini che zampillava tranquilla in mezzo alla moltitudine di romani e di turisti curiosi. Io sono straniero, mi chiamo Caleb e sono originario del Canada, Halifax per l'esattezza e non riesco ancora ad abituarmi alla bellezza di questo posto, cosa che gli Italiani danno per scontata. Non comprendono la fortuna di vivere in posti dove si respira la storia, si assorbe l'arte quasi per osmosi. Pareva tutto perfetto, quel giorno di dieci anni fa, mai avrei creduto di sbagliarmi tanto. Assaporavo il momento e pensavo alla serata che mi attendeva con Giulia, una bellissima ragazza conosciuta ai Parioli qualche mese prima, bella da togliere il fiato. Ci saremmo visti la sera, per un aperitivo e poi chissà. Mentre fantasticavo su questo, sentii delle grida nella piazza, rumore di spari, caos. Mi alzai in piedi, cercando di capire cosa fosse quel trambusto e vidi delle persone che correvano e sparavano sulla folla urlando in una lingua incomprensibile. Vidi parti della fontana andare in pezzi, con schegge che volavano ovunque. Un proiettile vagante mi colpì l'occhio sinitro e mi ferì alla testa, caddi a terra privo di sensi.

Mi svegliai al Policlinico Gemelli tre giorni dopo. Mi informarono che avevo perso l'occhio sinistro e che mi avevano operato alla testa d'urgenza, ma ero stato fortunato, la traiettoria del proiettile aveva provocato meno danni del previsto. Rimarranno le cicatrici è ovvio, ma poteva andare molto peggio, mi comunicano i medici. Certo, che gran fortuna eh? A quando la festa? Pensai amaramente.

Ve la faccio breve, nei mesi successivi alla mia riabilitazione persi il lavoro a Roma e dovetti tornare in Canada. Non ero più lo stesso di prima, divenni un antisociale a causa delle cicatrici e della benda sull'occhio che porto tutt'ora. Non superai mai il trauma, non rividi più Giulia. Seppi che era passata in ospedale ma che dopo avermi visto sfigurato se ne andò piangendo. Anche nella mia azienda di software canadese non durai molto, cinque mesi e la direzione mi diede il ben servito. Non gliene faccio una colpa, ero diventato un rudere umano, per quanto fosse comprensibile. La vita doveva continuare e pareva che io non ne fossi in grado.

A questo potete aggiungere anche una voce in sottofondo che ogni tanto mi invadeva il cervello, allora come adesso. Non riesco a cogliere il senso delle parole, sono sfuggenti, ma sono li e non riesco a tacitarle. Arrivano quando meno te lo aspetti, vorrei urlare e capire, ma aggiungerei solo altro sconcerto alle persone che mi circondano. I medici mi assicurano che è solo la maniera che ha il cervello di autoripararsi. Che è un fatto positivo. Che devo portare pazienza. A volte il cervello si rifugia nei ricordi che ritiene positivi e riporta in superficie voci di persone conosciute o che considera rassicuranti. Stronzate. Un proiettile mi ha preso un occhio e quasi ucciso. Questa è la motivazione. Sono guasto. Punto.

Per fortuna qualche risparmio ero riuscito a metterlo da parte e non ho avuto grossi disagi economici. Forse qualcuno potrebbe eccepire su come li ho usati negli anni successivi. Beh, credo che ognuno di noi provi dentro di se del rancore verso coloro che ci fanno del male no? Ecco, io quel rancore l'ho incanalato trasformandolo in una feroce determinazione. Tutti i miei risparmi, compresa la liquidazione ricevuta quando mi licenziarono, li ho spesi in studi, ricerce e addestramento. Folle vero?

Ogni giorno mi svegliavo con un unico pensiero fisso in testa, pensavo a vendicarmi di coloro che mi avevano rovinato la vita. Non sapendo chi fossero esattamente quelle persone, presi a leggere tutti gli articoli di giornali che furono scritti sull'attentato o a rivedere gli speciali trasmessi all'epoca. Libici inneggianti la jihad islamica. Una cellula terroristica che non venne presa, riuscirono a fuggire dopo aver ucciso otto persone e ferito altre dodici, compreso il sottoscritto. Quattro persone, con tanto di mitra e a piedi, l'hanno fatta franca dileguandosi per le vie di Roma. Il pensiero di aggiungere anche le autorità italiane alla mia vendetta mi ha sfiorato, lo ammetto. Detto questo, dati troppo generici, come fare a scovarli? E una volta trovati? Io ero un semplice informatico. Potevo ammazzarli di noia leggendogli dei manuali di programmazione, ma dubitavo funzionasse. Così mi sono messo a studiare l'arabo e trasferitomi negli States, mi sono unito ad un gruppo paramilitare antigovernativo tra le Montagne Rocciose.

Voi non avete idea di quanta gente abbia in odio il proprio governo e di quanti modi assurdi si inventa per cercare di rovesciarlo. In quei gruppi ho imparato a maneggiare armi da fuoco, pistole, fucili, esplosivi, coltelli. Non avevo idea di come si procurassero quelle armi e nemmeno mi interessava, come non mi interessavano le loro assurde teorie cospirazioniste, ma facevo finta di credirci come un invasato. Sparavo tutti i giorni, mi allenavo nei percorsi di guerra. Mi hanno insegnato le tecniche di sopravvivenza nei boschi, dove stavo per settimane senza vedere anima viva, armato solo di un coltello. Ho imparato a procurarmi cibo, a dormire pochissimo e a svegliarmi al primo rumore in condizioni limite. In questo ero bravo, tanto soffrivo di insonnia da sempre dopo l'incidente e le voci mi tenevano compagnia nella solitudine della foresta. Con una benda sugli occhi (o dovrei dire, sull'occhio) ho imparato a smontare, pulire e rimontare la pistola in dotazione in pochi secondi. Conosco ogni arma da fuoco inventata e costruita negli ultimi cinquant'anni. La mia preferita è senza dubbio l'M500 Persuader, modello Cruiser: niente calcio, solo un'impugnatura da pistola. Calibro dodici, camera da sette cm e mezzo, canna da quarantasette cm, metallo brunito, sei colpi, niente mirino, impugnatura anteriore di materiale plastico nero. E' un'arma brutale. Da usare con munizioni Brenneke Magnum. Proiettili di rame massiccio da ventotto grammi che escono dal Persuader a più di diciassettemila km all'ora. In addestramento riuscivo a creare dei buchi nei muri tanto grandi da passarci attraverso. Quando spari con un Persuader è come se scoppiasse una bomba, fanno un rumore assordante. Quello che colpiscono distruggono. Le ore che non passavo ad addestrarmi in combattimento corpo a corpo, tattiche di guerriglia, tecniche di sopravvivenza, le trascorrevo ad imparare l'arabo e le sue derivazioni, inoltre imparavo a memoria ogni cosa riguardasse la religione islamica, dal Corano a tutte le storie antiche legate ad essa. Tutto questo per sette anni. Sette fottuti anni della mia vita passati a diventare un'arma umana, senza emozioni, esperta di storia e religione islamica. Il mio obiettivo era infiltrarmi in una cellula terroristica, come convertito fedele di Allah, per scoprire dove fossero quei quattro bastardi ed essere preparato per farli fuori il giorno in cui li avessi trovati.

Tutto molto semplice e lineare, vero? Si, avete ragione, sono totalmente schizzato. Ma che volete farci? Sono il prodotto di quanto mi è capitato e dei film d'azione che tanto adoravo quando ero una persona normale. Ora sono un emarginato, con un occhio solo, che sente le voci in testa, capace però di ammazzare un uomo in centinaia di modi diversi. Che riuscissi o meno nel mio intento, cosa poteva importare? Niente, assolutamente niente. A nessuno. Perciò dopo sette anni, una mattina all'alba mi alzai e abbandonai i miei amici paramilitari fuori di testa. Non ne furono felici. E come dargli torto? Tanti anni di addestramento e uno dei loro sparisce? E se li tradivo? Se li facevo scoprire in qualche maniera, anche involontariamente? Non potevano rischiare, per cui mi diedero la caccia per alcune settimane, ma io ero stato uno studente in gamba. Nel loro pacchetto di addestramento era inclusa la lezione su come far perdere le proprie tracce in caso di bisogno e io ne approfittai, non mi videro più.

I tre anni successivi li passai a cercare le mie prede. Non fu facile perchè la comunità di cui stiamo parlando non è un club di taglio e cucito in cui ti puoi iscrivere su internet. Non so quante verifiche sulla mia vocazione jihadista e sulla conoscenza delle parole del Profeta mi abbiano fatto in quel periodo, ma alla fine sono entrato in una cerchia di convertiti. Ci hanno fatto viaggiare per tutto il globo, compiendo piccole missioni per gli interessi di qualche califfo colluso con i fondamentalisti. Giorno dopo giorno, ottenendo gradualmente la fiducia di chi mi stava attorno, li scovai. Non erano Libici, bensì Siriani, trasferiti in europa e integrati nel tessuto sociale francesce. Una cellula dormiente, accesa proprio nel periodo in cui lavoravo a Roma. Li ho seguiti passo passo tra Francia, Danimarca e infine eccomi qua, a Roma, dove tutto ebbe inzio e dove io metterò la parola fine.

Per la precisione loro non sono esattamente qui a Roma, il mio è solo uno stupido momento di riflessione e nostalgia. Volevo vedere Piazza di Spagna un'ultima volta, pensare a come potrebbe essere stata la mia vita se il giro di ruota fosse stato diverso. Il ritorno sul luogo del delitto. Patetico vero? Oggi piove a dirotto, sono l'unica persona seduta sulla scalinata e molti passanti mi guardano un po' a disagio. E' normale. Un uomo con la benda sull'occhio, senza ombrello, seduto sulle scale bagnate. Bene, è ora di andare, a breve incontrerò i miei quattro amici, non è giusto farli aspettare. Sono nascosti appena fuori Roma. Ovviamente le autorità italiane non ne hanno idea, come sempre. Terrosti che entrano ed escono indisturbati dal belpaese. La bellezza dell'Italia è anche questo, questa sua innocente noncuranza verso i casi della vita, tanto prima o poi qualcuno ci penserà, sistemerà. A questo ci penserò io. I quattro si chiamano Yusuf, Abdul Raouf, Kamal e Najm Udeen. Loro non lo sanno ma stanno dormendo sopra due kg di esplosivo al plastico. Uno dei vantaggi di fare parte di questo giro è la facilità con cui ci si può procurare esplovi e ordigni vari. Ti insegnano a fabbricarteli da solo con sostanze e materiali di facile reperibiltà, ma in questo caso sono andato sul sicuro, l'esplosivo è stato confezionato dall'esercito israeliano su loro gentile concessione. Come l'ho avuto? E' una storia lunga ma oggi non ci interessa. Se solo questa voce mi lasciasse in pace un momento. Si fa sempre più insistente, non riesco quasi più a dormire. Ormai sono le 3.49 del mattino, sono rimasto appostato fuori dalla loro abitazione a sufficienza, mi sono accertato che oltre a loro non ci siano altre vittime. E' ora di chiudere il cerchio e ritornare a vivere, forse. Boom!

"Caleb!" "Caleb" "Infermiera, corra, si sbrighi."- Ma cosa diavolo succede? Sono in un letto di ospedale. Ancora? E sento la voce di... Giulia? "Caleb, finalmente ti sei svegliato, sei ritornato tra noi!" - "Ma come, cosa è successo? La casa? I terroristi?" - "Casa? Non capisco. Tranquillo, è normale che tu sia confuso. Ti sei appena risvegliato da un coma di sei mesi. Un turista giapponese per sbaglio ti ha spinto mentre eri sugli scalini di Piazza di Spagna, hai battuto forte la testa, abbiamo pensato al peggio. Ma per fortuna stai bene, sia ringraziato il cielo." - "Questa ragazza è sempre stata qui al suo fianco signore" – dice l'infermiera – "le ha letto non so quanti libri in questi mesi. Le deve volere un gran bene". Io sono ancora frastornato, ma vedo Giulia arrossire davanti a me, mi tocco l'occhio sinistro. Ed è li al suo posto.
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Re: [#1] Il ritorno (Racconti) 28/02/2018 23:53 #18205

Una giustificazione in versi


Era il crepuscolo di Febbraio,
una serata fredda e nevosa,
quando giunse il messaggio di Acciaio
a ricordar la scrittura doverosa;
con animo ansioso mi accorsi del guaio:
la scadenza imminente ed impietosa.

Ma la serata non era quella adatta;
in coppa, Lazio-Milan procedeva male:
senza gol la partita finiva pari e patta
e il supplementare si faceva reale.
Chiedo venia, ma non ce l’ho fatta!
Colpa del ritorno della semifinale.
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Ultima modifica: 28/02/2018 23:58 Da Titivillus.
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