"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto." (Italo Calvino)
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ARGOMENTO: [#2] Citazione 1 (racconti)

[#2] Citazione 1 (racconti) 06/05/2016 12:03 #17647

"È uno che si gode la vita, come tutti quelli a cui è risparmiata la maledizione dell'intelligenza." (da Lettere dall'altrove di Lovecraft)


Questa citazione è il tema della seconda tornata di UniVersi 7, c'è tempo fino al 30 giugno compreso per postare il proprio racconto in gara.

Ricordatevi che:
- Il limite massimo di battute consentito per questa tornata è 6000 (spazi compresi, titolo escluso); potete controllare il numero esatto di battute dei vostri racconti su questo sito gratuito.
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RACCONTI IN GARA

- Ubi Timor Est (3578)
- Fame di libertà (3393)
- Prova a scrivermi (5323)
- Fortuna e sfortuna (3025)
- Scampami dalla spada (5988)
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Fortunatamente, ho sempre il difetto di prendermi poco sul serio...
[cit. Carmen Consoli - Fortunatamente]
Ultima modifica: 29/06/2016 21:05 Da gensi.
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Re: [#2] Citazione 1 (racconti) 13/05/2016 15:53 #17667

Ubi Timor Est

La tessera di appartenenza al Mensa sporca di polvere biancaccia buttata in un angolo. Ancora. Trovare il caricabatterie è impresa più impegnativa del solito. Gli occhi scandagliano la scrivania, a vuoto. Quarantotto ore filate a lavorare lasciano il segno, nonostante la scorta di energia bianca. Terribile, peraltro, fastidiosa da assumere, micidiale dopo. Non una scelta. Per chi lavora in banca una moda, in M&A poi rimpiazza il caffè.
Quarantotto ore filate. Erano state settantadue per l’incidente di Londra. Vent’anni, summer intern, JP Morgan. Colpo apoplettico in doccia. Un’intera università a mettere in dubbio per un’intera settimana il senso della vita. Il ticchettio dell’orologio sembra un tamburo. Comunque è raro morire per non aver dormito 3 giorni. Comunque quarantotto ore sono ancora poche. Per quanto sia una morte di merda.
Come in un sogno, computer in una mano, caricabatterie nell’altra, moleskine e penna nell’altra. Ma le mani sono solo due. Moleskine e penna sono ancora sulla scrivania. Passi lenti, di piombo. Bum, bum, bum. Passi di riflessione vuota. Destra, sinistra, sinistra, sussurrato inconsciamente per non sbagliare strada. Sala Mosca, per la call. La call con quel dito in culo. Gli occhi si ribaltano in alto in un gesto lento. Esasperato. Esagerato.

Stacco.

Una voce parla, flautata. Fastidiosa. Spiega, elenca, stantuffo inesorabile. Comprime l’incomprimibile, quarantotto ore in tre minuti. Elevator pitch. La mano cerca la presa con la spina, sul tavolo, dietro il bicchiere con le penne. Il bicchiere con le penne è rovesciato sulla scrivania, meraviglioso esempio di entropia. Di nuovo in piedi al suo posto, in un ticchettio. La voce continua a martellare, vive di vita propria, di conoscenza infusa, appresa, scalpellata da anni di feroci click di mouse.

Stacco.

Una voce a interrompere, una voce di rabbia. L’accento indiano, lo stramaledetto accento indiano. Le palpebre si lasciano andare. Stizza, non sonno. Quelli del Mensa sono un ammasso di strambi comunque. Una sola riunione, più che abbastanza. Schiacciati dall’autoimposto peso della loro superiorità, piegati dalla necessità di essere per il solo motivo di poter essere.
L’accento indiano, lo stramaledetto accento indiano. Su, giù, su, giù, e poi quella d, quell’inutile schiocco. La tabella a slide 7 non è allineata, pare. Come posso presentarlo al cliente? Costa tanto un po’ di attenzione? Quarantotto ore filate, ma la tabella a slide 7 non è allineata. A quella bocchinara di tua madre non dispiaceva.
“Cosa?”
Non era stato solo un pensiero. Un secondo di pausa, poi un altro, sospesi tra carriera e orgasmo. “A QUELLA BOCCHINARA DI TUA MADRE NON DISPIACEVA!”. Geniale, nella sua banalità, appena un semitono più alto del normale, in un ruggito consapevole della sua storicità. L’intera sala Mosca assiste incredula e vuota, lo stramaledetto accento indiano ha ora il volto del Capitalismo, allibito. Sconfitto.

Stacco.

“Heathrow”. Una parola, una centata di pound di taxi. Indonesia. Laos. Bangalore. Ma la risposta già cantilenava nella mente dall’urlo. Sin dall’inizio. Sin dal titolo. Timor Est. Che poi dove cazzo è Timor Est? È lontano. Lontano dalla carriera, dai soldi, dal Mensa, dai sogni dei compagni di classe e poi dei colleghi. Sogni appresi a forza di sentirli, mutuati. Sogni che diventano incubi solo per chi riesce e può, per chi li spoglia della rassicurante distanza del periodo ipotetico dell’irreale per viverli, per viverci e infine per viverne. Timor Est? Fuori dalla ruota del criceto, assurda mediocrità, meravigliosa pochezza.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
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Re: [#2] Citazione 1 (racconti) 04/06/2016 13:42 #17688

Fame di libertà

Albert correva veloce. Era da giorni che andava avanti, nel fango, per scappare dai nemici, per raccattare un pezzo di cibo. Ormai era diventato magro ma in compenso i muscoli gli permettevano movimenti che fino a poco tempo prima gli sarebbero parsi impossibili.
In prigione si è costretti a sopravvivere in spazi angusti e chiusi. Il mondo è solo un'immagine alla finestra, segnata da sbarre verticali che ne ingrigiscono le bellezze. Ma finché vive il ricordo delle passate esperienze, rimane accesa la fame di libertà.
Albert ne approfittò un giorno qualunque. Inaspettatamente la porta della sua prigione rimase aperta e non perse l'occasione. Fuggì più veloce che poteva, correndo, ansimando, cercando un'uscita utile. Alla fine la trovò e rivide il cielo, il sole caldo e l'erba fresca.
Ma il mondo esterno non è solo bellezza. E' pura lotta, per non morire, per il procacciamento del cibo, per un'idea di futuro vivibile.
Albert imparò in fretta tutto questo. Dopo alcuni giorni difficili, ragionò su come capovolgere la situazione a proprio favore. Seppur l'idea non lo ingolosisse, sapeva che il miglior riparo era nei dintorni della prigione, dove avrebbe anche potuto trovare facilmente del cibo lasciato incustodito.
Ritornò quindi all'interno del perimetro mortale, trovando un angolo nascosto da adibire a giaciglio sicuro. Studiò percorsi labirintici fino a trovare un'asse di legno vecchio, mal assestata e rimovibile. Da quel pertugio poteva tenere d'occhio l'ambiente, valutando il momento migliore per una celere incursione.
Un pomeriggio, provando una via diversa, Albert si ritrovò di fronte alla propria gabbia. All'interno c'era un altro individuo. Era flaccido e sonnecchiava sul pavimento con un occhio aperto.
“E tu chi sei?” domandò Bill.
“Io sono Albert. Prima ero lì dentro come te, ma sono scappato.”
“Scappato? E perchè mai? Qui si sta così bene!”
“Starai pure bene, ma sei un individuo senza futuro e senza libertà. Prima o poi ti stancherai e non vi sarà più possibilità. Io invece ho usato il mio cervello, ho cercato una via d'uscita e l'ho trovata. Ora sono rinato.”
Bill guardò Albert con moto di arroganza.
“Tieniti il tuo futuro e la tua libertà. Per quel che vedo, a differenza tua io mangio quanto voglio, sono sempre pulito e non mi devo preoccupare di nulla. Ho pure la mia puttana personale, lì in fondo, Monica si chiama. E me la scopo ogni giorno.”
All'improvviso un rumore assordante, dei colpi potenti e ritmati rimbombarono attraverso l'aria. Albert fuggì di nuovo verso il suo nascondiglio, mentre Bill tranquillo si rigirò sull'altro lato.

“Elizabeth, muoviti! Devi andare a lezione di pianoforte!”
“Sì mamma. Aspetta solo un momento, arrivo subito!”
La bambina entrò nella propria camera, si infilò le scarpe con i fiocchetti rossi e guardò dentro la sua gabbietta. Il topo era disteso a dormire come consuetudine, mentre la topolina probabilmente era dentro la casettina di legno.
“Ma Bill! Sempre a ronfare e mai che ti veda correre su quella bella ruota rossa che ti ho comprato. E Monica? Vabbè, tieni questo pezzettino di formaggio. La mamma insiste perché io lo mangi, ma non sopporto quello con la muffa.”
Poi la bambina corse verso la porta.
“Ci vediamo stasera topolini!”
Bill pian piano si trascinò fino al formaggio e ne addentò un boccone. Sentì un dolore al petto che subito sparì. Quindi non se ne curò e continuò a mangiare.
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Re: [#2] Citazione 1 (racconti) 24/06/2016 19:21 #17759

Prova a scrivermi

Caro diario,
riprenderti in mano e cominciare a scriverti, dopo tutto questo tempo, può sembrare un gesto da disperato. Da sfigato, diciamolo pure.
Ma d’altronde, come mi hanno insegnato film e telefilm, gli amici veri come te si vedono sempre e soprattutto nel momento del bisogno.
Eccomi quindi.
Più passano le giornate e più mi rendo conto d’essere diverso da chi mi circonda. Ed ho due paure che mi stanno schiacciando da lati diversi.
La prima quella di peccare di presunzione. Il mio sentirmi diverso, unico ed esclusivo temo che venga scambiato per arroganza ma ho la netta sensazione d’essere molto più avanti nel mio percorso rispetto alle persone che frequento giornalmente.
Dall’altro lato però temo che questo mio essere più avanti sia in verità il primo sintomo dello sfigato. Forse sono io che non riesco a vivere la vita di tutti i giorni per quella che dovrebbe essere?
Quindi non sono né più avanti né più maturo come mi pare di sentire ma semplicemente più disadattato?
Che cazzo di bordello!

Come ti avevo promesso nell’ultima pagina scritta ci ho provato. Da mesi infatti ho cercato di limare tutta quella parte polemica che mi aveva contraddistinto finora. Ho smesso di dire che uscire, fumare, bere, ecc… sono cose da drogati, da perdigiorno e così via. Insomma, ho cercato di adattarmi e, devo ammettere, in più d’una occasione questo mio cambio di atteggiamento m’ha permesso di ricevere delle belle bastonate in faccia.
Ero così convinto che quello o quell’altra fossero dei poco di buono salvo poi ricredermi e capire che c’è un background dietro ognuno di noi e che nessuno mi ha dato il potere del giudizio assoluto ed insindacabile.
Partiamo da questo allora. Sicuramente questi mesi sono stati utili anche se ora mi ritrovo con questa angoscia oppressiva che m’attanaglia.

Tutti i miei timori sui riflessi che questo mio atteggiamento poteva avere sulla vita normale si sono rivelate cazzate. Ho raggiunto tutti gli obiettivi, come sempre fatto finora senza mai perdere un colpo. Quindi sono stronzate che le cattive compagnie ti portano per forza su una brutta strada. È solo questione di organizzazione e questa dipende solo da noi stessi e dalle priorità che ci diamo.

E così, come vedi, ritorno anche a pontificare e a sparare sentenze. Quanto l’adoro… probabilmente sono il modo migliore per sconfiggere i miei demoni, rafforzare il mio ego e darmi quell’overdose di sicurezza necessaria a sopravvivere al tanto famigerato “contesto sociale”.
Non pensi anche tu sia un’espressione di merda “contesto sociale”? Cosa dovrebbe rappresentare? Come se davvero potessimo sentirci estranei e giudicarlo.

Vedi, come ti anticipavo, almeno questa esperienza mi ha insegnato che anche io ne faccio parte integrante. Sarò pure più sfigato o più avanti degli altri ma è evidente che non sono, solo, in un mondo diverso dagl’altri.
Ne faccio parte e seppur in maniera molto limitata e superficiale posso, in qualche modo, modificare i confini di questo contesto, renderli più sinuosi, renderli più misteriosi, saltellarci sopra e decidere quando, quanto e come starci dentro oppure no.

Credo che il vero problema sia la teoria degli insiemi mio caro diario. Ce la insegnano da quando siamo troppo piccoli. Continuano a dirci che c’è un insieme di numeri pari, un insieme di numeri dispari, un insieme di numeri primi, ecc…
Finisce che poi ci abituiamo troppo e cominciamo a fare gli insieme di persone: brave con cattive, tamarre con squatter, fasciste con comuniste.

Provando a stringere il punto della situazione credo sia evidente che faccio fatica a godermi la mia vita. Di tanto in tanto mi viene da pensare a come sarebbe se avessi una situazione più disagiata, tipo con genitori che si odiano, parenti delinquenti e cose così. E poi mi sento in colpa: anziché ringraziare perché vivo un’ovattata vita agiata, vorrei davvero essere un mezzo disgraziato magari in un contesto di guerra?
Sinceramente no. Va giusto bene per fantasticare e piangersi ogni tanto addosso.

Godersi la vita… più facile a dirsi che a farsi comunque! Quando ho visto quei miei amici felici nella loro ubriachezza ammetto d’aver provato un po’ d’invidia. Ma anche tantissima tristezza. Io vorrei divertirmi almeno quanto loro ma senza ricorrere a mezzucci come l’alcool. Che cazzo… che poi un conto è bere durante la cena, un conto è esagerare solo ed esclusivamente per levarsi l’impiccio.
Ma, soprattutto, per poi vantarsi il giorno dopo. Vantarsi di cosa? D’aver svuotato sette-otto cocktail? Estigrancazzi…
Il problema è che tutti pendono dalle labbra di sta gente. E quando solo io provo ad alzare un sopracciglio facendo notare che quella è una vita di merda, apriti cielo… Mi danno dello sfigato appunto…
Ed alla fine di tutto sai cosa c’è?
Che sono talmente sicuro di me, sono talmente presuntuoso e saccente che, nonostante i complessi, io sono sicuro d’aver preso la strada giusta.
Si, ne sono sicuro.
E se per consolarmi dovrò continuare a vedere film o leggere libri di gente sfigata al liceo che poi nella vita ha sfondato, beh, lo farò.
Io ci credo. E non credo per consolarmi. Ci credo perché le scorciatoie illegali sono il sistema dei vigliacchi per tentare di raggirare gli onesti. Perché se ne esistono di legali, andrebbero condivise e non tenute per se.
Si, sto di nuovo pontificando.
E ci godo!
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Ultima modifica: 24/06/2016 19:21 Da Titivillus.
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[#2] Citazione 1 (racconti) 27/06/2016 16:46 #17760

Fortuna e sfortuna

“Prova a fare un giro in qualche reparto di un qualsiasi ospedale, poi mi dirai se ti ritieni ancora una persona sfortunata!” Me lo sono sentito dire un milione di volte, ogni volta che mi lamentavo perché il mio ragazzo mi aveva lasciata, distruggendo i miei progetti futuri nonché una buona fetta della mia autostima, o quando mi capitava di dover cancellare le mie vacanze perché proprio il giorno della partenza mi svegliavo con trenotanove di febbre.
E alla fine in ospedale ci sono finita davvero. Non per mia scelta però: il mio intestino un bel giorno ha deciso di esplodere e di diffondere agli organi vicini i suoi liquidi infetti, quasi si sentisse in dovere di far denunciare la propria presenza, il proprio esistere e la propria importanza.
In effetti, le parti del nostro corpo che funzionano bene, le diamo sempre per scontate: se vuoi prendere una cosa in mano, un’infinità di muscoli si contraggono e rilasciano, i nervi si tendono, il sangue circola… insomma, tutto si mette in moto con una sincronizzazione perfetta, per far funzionare la tua mano. Non pensiamo mai a quanto lavoro occorra, e quanto preziose siano le singole minuscole operazioni che compiamo ogni istante per far girare tutto alla perfezione. Solo quando un ingranaggio si guasta, perde il suo incastro perfetto, allora ci accorgiamo che esiste, che non è un insignificante pezzo di noi. Improvvisamente, diventa fondamentale, essenziale, finalmente importante.
Di fianco a me in ospedale, c’era una signora di ottant’anni. Ovviamente, l’età glie l’avevo attribuita io guardando il suo aspetto. Ma forse era più giovane. Educata e gentile, la Signora Adelia aveva una propensione naturale al racconto. Snocciolava mille aneddoti divertenti, intervallandoli ad interessanti resoconti di eventi vissuti o sentiti dire.
Era entrata in ospedale dal Pronto Soccorso, per un banale dolore alla schiena, che a tradimento si era poi rivelato essere un tumore al pancreas. Ma lei non lo sapeva: i medici, gli infermieri e tutto il personale che le ruotava intorno, aggiungevano ogni giorno un dettaglio alla sua diagnosi, in modo che potesse arrivare a capirlo molto lentamente, evitandole colpi improvvisi. Partendo dal farle notare che aveva una carnagione giallognola, che però lei attribuiva proprio al suo soggiorno in ospedale non propriamente “abbronzante”, erano poi passati al segnalare che forse c’era una cisti dietro lo stomaco, appoggiata al pancreas. E poi, che questa cisti poteva “non essere bella”.
Ma lei continuava a sorridere e a raccontarmi le sue gioiose avventure.
Quando lasciai l’ospedale, con un pezzo di intestino in meno e duemila disturbi collegati alla resezione, ritrovai i miei amici che continuavano a ricordarmi quanto io fossi stata fortunata. Perché ero viva, anche se mutilata e con cinque cicatrici sulla pancia. Ma viva.
E io risposi loro: “il fatto che esista al mondo qualcuno che stia peggio di me senza meritarlo, non fa di me una persona fortunata: fa semplicemente degli altri, persone più sfortunate”.
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Ultima modifica: 28/06/2016 23:44 Da gensi.
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Re: [#2] Citazione 1 (racconti) 29/06/2016 01:12 #17764

Scampami dalla spada

Quello è il mio capo che mi ha mandato qui. Mi dice vai che c’è il carico da portare, ma io ho le ferie dico e lui se ne fotte, mi dice la crisi e bisogna lavorare. E' così che va adesso, se hai un lavoro te lo tieni stretto e stai zitto. A quest’ora dovevo essere già tornato a casa e invece la neve mi ha bloccato. Ieri sera ho telefonato al capo e gliel’ho detto che l’autostrada era bloccata, lui mi dice di dormire nel camion nell’area di sosta che poi di mattina si può circolare, ma nel camion c’è un freddo che ti si gelano i piedi. Così sono andato in un motel che conosco, non è come dormire a casa, ma le stanze sono calde e le lenzuola pulite.
Prima di andare a dormire telefono a casa, mi risponde mio figlio, sono contento di sentirlo così ci parlo, papà sta bene, è solo un po’ di neve, domani torno certo. Sì papà, dice, sì papà, sì papà. Alla fine mi distendo su letto ma sento dall’altra parte del muro una checca che parla al telefono, grida, e tu non mi dovevi fare questo, e tu non dovevi fare quello, ma io a quella stronza, e tu non ti fare più vedere, e cose così. Tiro due pugni al muro e gli urlo di fare silenzio che c’è gente che lavora e la sera deve dormire, sento lo stronzo che grida fanculo tutti, poi sbatte il telefono a terra e fa silenzio. Non riesco più a dormire, allora penso di andare a prendere una birra giù al bar e quando apro la porta della camera si apre anche la porta accanto ed esce fuori la checca. Ha una vestaglia rossa e sotto si vede che è nudo, ha il trucco colato giù sulle guance e fuma, mi fa sei tu che tiri pugni al muro? Sì, dico, e se vuoi ne tiro uno anche a te. Ma lui si mette a ridere, e dice tutti così dite, e poi invece. Ma a me mi fa schifo pure a guardarlo e se sto ancora fermo lì finisce male e allora prendo le scale, ma lo sento ancora ridermi dietro come una pazza. Che poi vorrei sapere che cazzo ha da ridere uno così. Ma mi ha messo su il nervoso e scendo giù per le scale come un forsennato fino a uscire fuori, all’aria aperta. Il bar è due isolati più avanti, di solito ci vanno i camionisti ma non c’è nessuno che conosco, allora bevo due birre e mi guardo attorno, è un mortorio, due vecchi a un tavolo, nessuno con cui fare due chiacchiere e il barista si fa i cazzi suoi al cellulare. Prima di tornare in stanza decido di passare a dare un’occhiata al camion così vado all’area di sosta. Di solito la sera si vede qualche trans lì, so di colleghi che ci vanno a farsi fare i pompini, e poi magari vanno con le mogli, a rovinare la famiglia con le loro malattie, che schifo a volte la gente. Il camion è a posto, lo metto in moto per un po’ per fare scaldare il motore, va come un orologio, sono io a fargli la manutenzione, mica tutti lo sanno fare come me. Quando scendo dal camion la vedo, la ragazza dico. E’ messa seduta sul guard rail quasi alla fine dell’area di sosta. E’ vestita leggera con un giubbotto e la minigonna jeans e gli stivali, si vede che ha freddo, è tutta rannicchiata con le braccia incrociate e le mani sotto le ascelle. Non l’ho mai vista prima qui, e non capisco se è una puttana. Quando lei si accorge che la sto guardando mi fa un cenno con la mano, così con le dita aperte a vi sulla bocca, come uno che fuma. io faccio cenno di sì con la testa e le faccio il gesto di avvicinarsi che le do una sigaretta. A guardala da vicino è poco più di una ragazzina, ha capelli neri e occhi scuri, la luce arancione dei lampioni forse le pialla i lineamenti, penso. Magari è più grande di come sembra. Lei mi dice che bel camion che c'hai è tuo? Mio no, dico, è della ditta, ma lo guido io e poi le cose appartengono a chi le usa, in qualche modo, o no? Lei mi dice che allora è la padrona di quell'angolo dell'area di sosta, e ride. Ha un bel modo di ridere, mentre tiene la sigaretta e butta via il fumo. Gli occhi si stringono e la bocca grande si apre, ha i denti d'avanti distanti fra di loro ma è bella da vedere. E sei solo? mi fa. Si, sto al motel della circonvallazione. Hai trenta? Sì. Andiamo, dice, e ride ancora. Al motel il portiere di notte ci guarda ma non dice niente. Il finocchio non è più sul pianerottolo, sarà andato a farsi inculare. In camera lei mi mette le braccia sul collo, mi vuole piacere. Io le dico perché non la smetti di fare la puttana, non è una cosa per te, si vede. Sei carino a dirmelo, dice, ma ora ho bisogno di soldi e un posto per me. Penso cosa potrebbe fare con una possibilità, se avesse una lavoro vero, se qualcuno l'aiutasse. Ma nessuno ti da niente. E lei sarà destinata a prendere solo cazzi. E' uno spreco insopportabile. Io mi faccio un po' male, dice, è che non sono tanto abituata. Ci spogliamo e spengo la luce, al buio è meglio, senza guardarla in faccia, che poi mi ho il rimorso e non mi viene duro. Lei si distende sul letto e mi dice vieni, in modo dolce, ma sopra di lei capisco cosa è veramente, una bambina che gioca a fare la puttana, una ragazzina rigida, le braccia tese per tenermi il più lontano possibile, i muscoli dello stomaco che si stringono e le ginocchia che si toccano per non farmi andare a fondo. Allora la metto pancia sotto, con tutto il mio peso su di lei così non si può più muovere, curvo la schiena e entro e la scopo come tutte le altre, con una mano sulla base del collo e con l'altra che la tengo per i capelli. So che le sto facendo male e che non griderà, stringerà i denti, sopporterà. La abituo alla vita.
Vengo. Lei si raggomitola in un angolo del letto,la tocco ma rimane ferma. Perché non rimani qui un po'? Pago io, Ti vengo a trovare, magari ti cechi un posto come cassiera o altro, dico. Perché non chiudi quella cazzo di bocca? dice. E si alza dal letto. Perché non mi dai i miei cazzo di soldi? grida.
Il finocchio è rientrato, ho sentito la porta della sua stanza chiudersi. Zitta, le dico. Fottiti, grida sempre più forte, fottiti. E pensare che volevo darle una possibilità, signor commissario, ma in quel momento non stava zitta, non stava zitta e io ho stretto troppo a lungo.
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Ultima modifica: 29/06/2016 01:54 Da Titivillus.
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