"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto." (Italo Calvino)
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ARGOMENTO: [#3] La città dei folli (racconti)

[#3] La città dei folli (racconti) 01/02/2012 23:03 #4727

La follia è nei singoli qualcosa di raro − ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola. (Friedrich Nietzsche)

La città dei folli è il terzo tema di questa quarta edizione di UniVersi.
C'è tempo fino al 31 Marzo 2012 (compreso) per postare i propri elaborati.
Ricordo che è ammesso un solo racconto per autore.
Se al 31 Marzo non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine ultimo sarà prorogato al 15 Aprile.
Se al 15 Aprile non ci saranno almeno 6 racconti in gara, il termine definitivo e improrogabile sarà portato al 30 Aprile.
I racconti vanno postati in forma anonima (gli autori saranno svelati a fine concorso, dopo le votazioni) effettuando il login con l'account "Titivillus", password "universi".
Ricordatevi di controllare il numero di caratteri prima di postare. I racconti che supereranno i 12000 caratteri (spazi compresi) saranno considerati fuori concorso.
Ricordatevi anche di postare un sottotitolo per la vostra opera.

Avete già esplorato i lati più oscuri dell'animo umano con "Disumano", ma era solo il vostro campo di addestramento. È tempo di lasciarlo per esplorare le distorsioni dell'umana mente in senso geografico. È tempo di trovare... la città dei folli!

REGOLAMENTO COMPLETO


RACCONTI IN GARA
  1. Il distacco del piccione (9768)
  2. Pazzia, amabile amore (11982)
  3. Caviale (9161)
  4. The City of Mads (11813)
  5. La vera città dei folli (7785)
  6. Drell (11983)
  7. Il muro (10196)
  8. Il campione di ciclismo (8759)
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"Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer;
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Ses ailes de géant l'empêchent de marcher."
Ultima modifica: 02/04/2012 06:02 Da White Lord.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 24/02/2012 17:59 #5094

Il distacco del piccione

“domani, alle 9, qualcuno ti vuole parlare. Non mancare. SD”

Imboccato lo stretto vicolo scorgo l’insegna arrugginita dell’Osteria della Luna. L’appuntamento è qui, una vecchia topaia polverosa miracolosamente scampata ai bombardamenti della modernità. Non è mica un concetto così evidente, la modernità. Qui palazzi e portoni sono sempre gli stessi, che uno si illude che tutto sia uguale a quarant’anni fa. Poi basta entrarci dentro agli edifici, o specchiarsi nelle carrozzerie lucide delle macchine parcheggiate per strada, per capire che un’ondata di soldi ha lavato via il passato di questo gran villaggio, mentre io ne trascino ancora le scorie. Non mi spiego come l’Osteria abbia resistito alla piena.

Apro la vetusta porta in legno e il puzzo del sigaro di Sante Delacroix mi invita ad entrare. Il mio culo ancora freddo riceve il benvenuto: – Monin, diocane, quante volte ti ho detto che qui non serviamo Brunello. La stessa frase da quindici anni a questa parte, da quando seppe che facevo il giornalista. A Sante i giornalisti stavano parecchio sul cazzo, li considerava, e non credo che ad oggi abbia cambiato opinione, dei fighetti cacasotto, pennivendoli al soldo del miglior offerente. “Giornalisti, Brunello e aperitivi” mi diceva. Solo col tempo aveva cambiato parere su di me. Ero sempre un pezzo di merda, ma un po´ meno degli altri.
– Buongiorno Eugenio, oggi è nuvolo ma per fortuna ci sei tu a risplendere .
– In culo te e il meteo – mi risponde imbruttito.

L’Osteria è il solito ricettacolo di polvere e ragnatele, è così da quasi mezzo secolo. I tavolini in massello stanno in piedi come vecchi con stampelle e braccia deboli, traballanti ad ogni minima sollecitazione. Tutto, nella sala vuota, oscurata da vetri opachi e fumosi e lampade stanche di vivere, porta con se il gene della precarietà. Eugenio , al contrario, è ancora piuttosto in forma, quasi che da novello Dorian Gray abbia ceduto l’onere della vecchiaia al suo vecchio rifugio. Con la solita noncuranza, mi indica con un cenno del capo la porta in fondo alla sala: –Ti aspetta nel retro.
Oltrepassata la soglia vengo investito da un tanfo irrespirabile, mi blocco.
– Coraggio amico, – mi accoglie una voce, mentre porto il braccio fra bocca e naso per filtrare i miasmi – Sopporta per qualche minuto il mio odore , in fin dei conti sono anni che subisci ben di peggio.

Cosa vuole questo, Monin?

Avanzo nel tugurio semi buio, verso quella che sembra essere l’origine della voce che mi ha ricevuto. Lo vedo e caccio un urlo: – E tu che cazzo sei?
– Secondo i manuali di ornitologia sono un colombo triganino modenese, – risponde per niente sorpreso dalla domanda – Noto agli esseri umani con il nome di piccione. Ma puoi chiamarmi Ludovic Johnson.

Ok, calma Monin, non impazzire proprio ora. Stai parlando con un piccione e sei un giornalista. Ricorda le basi, mai farsi travolgere dall’evento.

- Calma Monin, – me lo ripete pure lui, di star calmo – capisco che la faccenda non sia proprio come te l’aspettavi, ma suvvia, dammi qualche minuto del tuo prezioso tempo.
Ruota lentamente il collo nero corvino verso me, che nel mentre raccatto uno sgabello e mi ci siedo. Respiro a fatica e la poca aria che mi va nei polmoni sa di muffa e sterco. Gratto nervoso la barba sotto il mento e sento la tecno pulsare sul collo. Starebbe per riprendere a parlare ma lo anticipo.
– Calmarmi? Dovrei calmarmi? – beh effettivamente dovrei, o mi verrà un infarto – Sto parlando con un piccione…
- Un triganino modenese, per la precisione – mi corregge flemmatico.
– Triganino, piccione, come cazzo ti pare! Chi sei? Come fai a parlare? Cosa vuoi da me? -Sul perché noi triganini parliamo, ti risparmio la spiegazione – risponde, cogliendo col becco alcuni semi di zucca da un sacchetto poggiato su una vecchia panca.
E aggiunge :– Voglio solo raccontarti una storia. Così quando ti chiederanno la fonte potrai rispondere “me l’ha detto un uccellino", come nei film. Ora apri le orecchie.

Si bravo Monini, ogni tanto è meglio sedersi e stare a sentire. L’avresti dovuto fare anche dieci anni fa, l’11 gennaio 2002. Invece hai perso la pazienza, non le hai dato retta e sei uscito di casa. Poi ti hanno chiamato.

Sante mi riporta alla realtà. È entrato senza che me ne accorgessi, poggia sul tavolo una ciotola colma d’acqua per Ludovic Johnson e un bicchiere di lambrusco per me. Non ha l’aria sorpresa e probabilmente conosceva la verità sui piccioni già da tempo. Con la stesso garbo con cui è entrato, il vecchio torna alle sue faccende. Ludovic Johnson ingoia un altro seme di zucca e mi guarda: – La storia che devo raccontarti inizia più di sessant’anni fa. Allora qui vivevano i nostri avi. Arrivarono in città, dalle campagne, sollecitati dai governanti di allora.
– Dunque sapevano di poter comunicare con voi?
– Ovviamente. Col tempo poi, i bastardi, hanno cercato di convincerci e convincersi che non fosse vero, così sono iniziati i problemi.
– Perché vi hanno voluto in città?, – gli chiedo – Cosa guadagnavano loro, e cosa voi?

Bravo Monin, fai il giornalista, subito al sodo.

– A noi garantirono cibo e sicurezza. Dopo tutto la vita in campagna non era tutta rose e fiori. Cibo da spartire con tanti altri uccelli, e poi i predatori. Gli uomini ci guadagnavano in belle figure. Un tempo ci consideravano graziosi animali ed erano disposti ad offrirci cibo per riempire e ripulire le piazze, divertire i bambini, volare in stormo e dare spettacolo. Loro vendevano becchime in quantità industriali e si arricchivano, nel frattempo noi ingrassavamo.

Mando giù il lambrusco in due sorsi. Ludovic Johnson beve dalla piccola ciotola, afferra col becco un altro seme, ne deve andar matto, il pennuto, e prosegue: – A un certo punto è tutto cambiato. Hanno preso a chiamarci topi con le ali, ci hanno accusato di diffondere malattie, di imbrattare la città...

Gli si rizzano le piume sul collo e il suo occhio sbarrato mi fissa gelido, perdendo la calma serafica con cui si era presentato: – Hanno iniziato a non tollerare la nostra presenza. Hai mai contato tutti gli spilli acuminati sui davanzali, sui tetti e le grondaie, messi per evitare che noi ci poggiamo? Ce lo stanno spiegando chiaro e tondo, voi qui non siete più graditi. Da anni distribuiscono becchime avvelenato, tanti compagni sono finiti all’altro mondo.
– Ludovic, – chiedo confuso – Dove mi vuoi portare?
– Da nessuna parte, – ribatte lui – Voglio solo che tu capisca cosa ci state facendo. Noi siamo il lercio di questa città mentre voi la asfissiate senza pietà. Noi non meritiamo più di vivere fra i tetti dei vecchi quartieri, mentre voi li sventrate e ci costruite gabbie per umani da vendere a caro prezzo. Voi avete il diritto di cacciarci, noi solo il dovere di esservi utili.

Ludovic Johnson spiega le ali da triganino modenese con la fierezza e l’orgoglio dell’aquila reale.
– Non ci faremo ammazzare, Monin, – sentenzia ergendosi maestoso – Stavolta non resteremo indifferenti. Nella storia non è esistita specie vivente capace di sterminare la nostra stirpe. Mai nessun uomo è arrivato a dare un calcio in culo a un piccione. Ci avvicinano alle spalle, caricano il tiro certi di colpirci, ingannati dal nostro vigile distacco. Ma quando il colpo sta per arrivare muoviamo un passo in avanti, sempre.

Ha ragione il piccione, a volte anch’io sono stato tentato. Va bene Monin, ragiona. Cosa può volere da te, ucciderti? Magari spera che tu scriva un articolo. Si certo, ti rinchiuderebbero in un manicomio. Basta, vattene, mandalo a fanculo.

Non faccio in tempo ad aprire bocca o a levare le tende, Ludovic insiste: – Siamo milioni e abbiamo colonie in tante città. Ormai manca poco alla nostra riunione nel Grande Stormo. Ci nutriremo nelle campagne e scaricheremo tutta la portata dei nostri intestini sui vostri tetti e sulle vostre teste. Vi riempiremo di merda, Monin, cacheremo sulle vostre calunnie quotidiane, sulla vostra insolenza, sulla vostra violenza.
Colgo l’ira nel suo sguardo ma in un attimo le sue piume tornano docili: – Il motivo per cui ho voluto incontrarti è che ho un debito con te, o meglio, con una persona a te molto cara.

Cosa dice, Monin?! Lei se è morta 10 anni fa, uccisa da uno psicopatico. Uccisa perché sei stato così stronzo da lasciarla sola quel pomeriggio. Uccisa perché mentre giravi in macchina come un coglione, al lavoro ci è andata a piedi. E mentre bevevi una sambuca dietro l’altra in quel bar di periferia, il Jolly ricordi?, la telefonata.

Mentre penso a Sara, a quel giorno di gennaio, a lei riversa per terra e circondata di piume come un angelo abbattuto, Ludovic mi guarda, ora con pietà. Di me e di se. Ha perso il furore, la rabbia, il desiderio di vendetta. Di merda e sangue. Conosce la mia storia, la mia vita e il momento preciso in cui si è conclusa.
– Quel giorno c’ero anche io. Erano i tempi dei primi fermenti in città contro i piccioni. Non era raro trovare cibo avvelenato ma nessuno si aspettava ciò che poi accadde. Ero con la mia compagna, in cerca di riparo sotto un tetto, quando all’improvviso ci spararono addosso. Vidi il suo corpo esplodermi di fronte e cadere sulla via. Feci appena in tempo a raggiungerla...

…E poi il ricordo si fa confuso. La donna che sopraggiunge, le urla dello psicopatico, lei che implora “metta giù il fucile, è solo un piccione!” e infine l’ultimo colpo sordo, prima del silenzio definitivo. Quella seconda fucilata, destinata a Ludovic Johnson, triganino modenese comandante del futuro Grande Stormo e vendicatore di milioni di piccioni e di un uomo solo, colpì la donna. Sara, la mia Sara.

Arriverà la vendetta dei piccioni, arriverà dal cielo. Mai come oggi vorrei avere ali anch’io. Come Ludovic planare sulla città, la città di 10 anni fa, e ritrovare la mia ombra.
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 12/03/2012 16:45 Da Tavajigen.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 02/03/2012 22:31 #5124

Pazzia, amabile amore

Era un infuocato pomeriggio d’estate. Mi avevano aperto la porta due ragazzi, facendomi entrare mentre andavano a chiamare il destinatario del pacco. Il lavoro che facevo in quel periodo –ero postino- mi costringeva spesso a lunghi viaggi in furgone per le consegne. E per quella ragione mi trovavo in quella strana costruzione, alta, larga e addossata ad un rilievo scosceso. Avevo dovuto scendere diversi piani di scale per raggiungere l’ingresso, cosicché dovevo trovarmi diversi metri sottoterra.
Ero in un’ampia sala. Sembrava quasi una caverna, forse per le mura pitturate con quella pesante cacofonia di colori rocciosi.
I due mi avevano fatto accomodare su una strana panca di legno. Ma la forma ricordava più che altro quella di un trespolo: squadrata, profonda mezzo metro e allungata. Il pavimento sotto di me era trasparente; sotto si poteva vedere un ampio rettangolo dal colore azzurro chiaro. Laggiù -mi resi conto- si apriva un’enorme piscina.
Di fronte alla mia panca ve n’era un’altra gemella. Ero da solo in quell’enorme stanza, e ogni piccolo movimento che compievo o scricchiolio di qualsiasi genere rimbombava e si rifletteva sulle pareti spoglie. L’unica, grande finestra –ce l’avevo proprio davanti- dava su quella che sembrava roccia viva.

Poco dopo tornarono i due giovani che mi avevano accolto al mio ingresso. Avranno avuto una decina di anni meno di me, circa venticinque. Erano un ragazzo ed una ragazza. Lui era alto e dai tratti mediterranei; lei aveva gli occhi scuri e morbidi capelli biondi le incorniciavano il volto gentile ed elegante. Aveva uno di quei visi che sembrano sorridere sempre; quello era il suo modo di comunicare con me, dato che non aveva mai parlato.
Nemmeno ora mi rivolse la parola, limitandosi a sorridermi dolcemente. Era proprio bella. Il ragazzo invece parlò: “Sta arrivando”.
Ero piuttosto a disagio per la peculiarità dell’ambiente; però il ritorno dei due mi fece piacere, dato che stare da solo lì dentro era un po’ inquietante. I due sedettero sull’altra panca, di fronte a me.
Sorrisi e poi rivolsi lo sguardo alla ragazza. I suoi occhi erano caldi e avvolgenti ed era piacevole lasciare che mi circondassero, sempre illuminati da quel sorriso.

Dopo qualche minuto fece il suo ingresso dal fondo della sala un nuovo personaggio. Era vestito da soldato, la tenuta mimetica impolverata e sgualcita, i gradi del sergente al petto. Gli occhi intensi erano ingranditi da un paio di occhiali tondeggianti e ombreggiati dalle sopracciglia nerissime e cespugliose; i capelli erano invece brizzolati e gli scendevano fin sulle spalle. Nel complesso quella figura aveva un’aria paterna e severa; sembrava spazientito.
“Eccola finalmente!” esclamò vedendomi. “Mi segua, venite tutti o farete tardi!”
I miei compagni di attesa si alzarono subito e io li imitai, intenzionato a chiedere spiegazioni. Ero lì per consegnare un pacco e null’altro, avevo da lavorare.
Invece non riuscii nemmeno ad aprire bocca prima che il sergente parlasse.
“Ecco, salite di qua. Presto!” esclamò afferrando una maniglia nel muro e aprendone una botola. Mi avvicinai per guardare, allucinato dalla situazione. Un tunnel –dal diametro approssimativo di un metro- saliva diritto. Era perfettamente tondeggiante e al suo interno erano presenti delle maniglie per consentire un’eventuale scalata. Da quella botola si inerpicava con inclinazione notevole ma costante su per la roccia in cui probabilmente era scavato.
Guardai allibito in su, poi mi rivolsi al sergente. “Sì, esatto!” rispose, senza nemmeno provare a indovinare cosa stessi pensando. “Forza, correte, qui siete in pericolo!”.
I due giovani si erano posti alle mie spalle a distanza ravvicinata, quasi spingendomi per primo, dunque mi avviai senza sapere bene dove e da cosa stessimo fuggendo. Sembravano tutti spaventati e mi trasmisero quell’ansia, ciò che mi spinse su insieme certo al carisma del sergente. Peraltro in tutto ciò mi dimenticai totalmente del pacco, che rimase –forse per sempre- laggiù.

L’interno era pulito e in ordine, ma sentii ugualmente una vaga sensazione di claustrofobia una volta entrato. La situazione era talmente irreale che nemmeno immaginavo cosa potesse esserci oltre quel tunnel. Da dietro era provenuto uno schianto, segnale inequivocabile che l’apertura era stata chiusa. Evidentemente l’unica possibilità di uscire era salire; nel buio intravedevo, una ventina di metri sopra, un vaga luminosità che annunciava un’altra botola chiusa.

Fortunatamente non era bloccata. Uscii dunque seguito dai miei compagni di viaggio, chiedendomi ora chi fossero. Mi ritrovai in un’altra stanza, come uno slargo all’interno di un corridoio. Mi accorsi subito del gran numero di telecamere che ruotavano sui perni più strambi; molti di quegli occhi elettronici mi fissarono con insistenza. “Veloce, non si fermi qui” fece il giovane, che nel frattempo aveva aperto un’altra botola nel muro di fronte all’uscita: la prosecuzione del tunnel. E ancora una volta non potei che incamminarmi sentendo in un altro schianto chiudersi quella via di uscita dopo che i due furono entrati. Proseguii su per il tunnel scuro, talmente allibito e spaventato che quel meccanico salire era la sola cosa che potevo fare. Ancora una ventina di metri mi portarono ad una nuova uscita.

I colori che mi accolsero qui erano innaturalmente vivaci, grezzi, come quelli di un dipinto ancora da rifinire. Mi trovavo sempre al chiuso, ma l’altezza del soffitto e l’ampiezza dell’ambiente mi fecero pensare di essere all’aria aperta. Sotto di me c’era una specie di strada asfaltata e affiancata da alte mura che la forzavano, dopo un tratto rettilineo lungo un centinaio di metri, a descrivere una curva lenta e lunga. Ci incamminammo tutti e tre; del resto il tunnel sbucava all’inizio della strada, quindi la direzione possibile era una sola. I due giovani avanzavano ora al mio fianco, gli sguardi attenti rivolti davanti a loro.

Camminammo così per pochi minuti, abbastanza per accorgermi che quella strada formava una U: noi arrivavamo da uno dei due bracci e ci dirigevamo verso l’altro. Cosa potesse esserci me lo chiedo ancora oggi.
All’improvviso un frastuono incredibile invase l’aria. Ci bloccammo sul posto e fu a quel punto che vidi la cosa più pazzesca di quella pazzesca storia: una vascello enorme, alto almeno una dozzina di metri, ci correva incontro trebbiando letteralmente l’asfalto del pavimento. Sembrava uscito da un racconto di pirati: era fatto di legno e si vedevano i cannoni sui due lati. Sulla punta della prua una polena rappresentante una chimera ci fissava storto con gli occhi leonini. La nave aveva delle lame fissate in qualche maniera sotto la chiglia, lame che straziavano la strada in un atroce stridio. Corremmo tutti e tre disperatamente indietro, senza immaginare come salvarci. Dopo qualche passo la ragazza inciampò e cadde, venendo subito fagocitata dall’avanzare di quel mostro e sparendo ai miei occhi.
“Non c’è niente da fare, corra!” esclamò il giovane vedendomi voltato. Non poteva avere sentito il mio grido in quanto il rumore era ormai un boato continuo. Correndo a rotta di collo giungemmo al punto da dove eravamo usciti, dove la botola di prima ci aspettava; questa volta l’infilai senza dover essere incoraggiato. Feci per gettarmi verso il basso ma mi resi conto dell’ennesima stranezza: non si poteva, in quanto ora il tunnel saliva senza dare alcuna possibilità di discesa. Non potei quindi che scattare verso l’alto mentre l’altro superstite si chiudeva dietro in uno schiocco il pertugio.

Non appena quel colpo segnalò la chiusura della botola il rumore cessò di botto. Non avevo nessuna intenzione di fermarmi e cercare di capire cosa succedesse però, e continuai a salire. Questa volta la strada da percorrere nel tunnel sembrava più lunga e ancora più buia
Ma anche quella volta la salita terminò, facendomi quasi sbattere contro l’ormai detestata ennesima botola.

Mi ritrovai in quello che sembrava essere un normalissimo ufficio. Uno studio medico, mi corressi subito. Sulla mia sinistra una parete raccoglieva infatti una serie di quadri: laurea, specializzazione, quelli che sembravano dei riconoscimenti. A destra avevo una grande libreria. Intimorito mi volsi lentamente: dietro una scrivania di legno scuro sedeva un medico. O meglio, sedeva quel sergente che da sotto mi aveva mandato qui; ma ora era vestito da medico, con tanto di camice bianco.
“Ah eccola, Brambilla”
Come conosceva il mio nome? E dove diavolo eravamo? Mi feci avanti, questa volta deciso a capire la situazione.
“Mi stia a sentire, dottore, o sergente, o quello che è: cosa sta succedendo, dove mi trovo?”
“Dottore” fece quello, guardandomi sorpreso. “E –mi sembra evidente- ci troviamo in un ospedale. Si ricorda che eravamo d’accordo di fare una chiacchierata?”
“Io non sono d’accordo con niente, l’unica cosa che lei mi ha detto è di salire senza spiegarmi niente! Ma ora esigo che lei mi chiarisca cosa sta succedendo!”
“Mio caro Brambilla, non so proprio a cosa si riferisca!” mi fece lui. Vedere il suo volto falsamente sorpreso mi fece perdere ogni diplomazia.
“Mi stia a sentire, caro mio dottore-soldato. Lei mi ha costretto ad arrampicarmi su per un tunnel scavato nella roccia, o quello che era. Abbiamo fatto un sacco di strada finendo prima in una stanza con un sacco di telecamere e poi in un’altra, dove i colori erano strani. Poi siamo scappati via e siamo arrivati qui! –poi persi totalmente la pazienza.- Ed è inutile che fa quella faccia, che mi viene solo voglia di prenderla a schiaffi! E siamo saliti come degli imbecilli fino a arrivare in questo cesso di stanza da un buco per terra! Ma mi spiega chi ha un buco per terra in mezzo all’ufficio?!”
“Non io” mi disse. Guardai subito dietro di me, deciso a sbugiardarlo. E fu a quel punto che le proteste mi si strozzarono in gola. Una moquette blu, morbida e bassa, ricopriva l’intero pavimento della stanza. Non c’erano rigonfiamenti che facessero supporre la presenza del tunnel.

Allibito mi gettai carponi a terra, tastando con le mani per capire dove stesse il trucco, ma non riuscii a notare niente. La moquette non aveva rappezzi né buchi né doppifondi di alcun tipo. Non c’erano aperture. Niente. “Lei è entrato pochi secondi fa dalla porta, Brambilla”

A quel punto quella stessa porta si aprì dietro di me e ne entrò una giovane infermiera. Con mio ancor più sommo stupore era la ragazza di prima.
“Eccomi dottore, ho trovato la cartella del signore”.
“Lei!” esclamai, ormai totalmente sconvolto da inginocchiato. “Sta bene!”
Mi rivolse quel suo splendido sorriso. “Certo, signor Brambilla. Lei come sta invece? Come si sente?”
“Ma… ma lei è stata falciata da quella nave, là sotto… l’ho vista con i miei occhi!” Mi rivolsi all’altro giovane, rendendomi conto che anche lui era vestito da infermiere. “Lo dica anche lei al sergente!” esclamai.
“Il giovane si scambiò uno sguardo con il medico e poi scosse tristemente la testa.
“Signor Brambilla, ho paura che lei dovrà farci compagnia” mi disse il medico con tono basso e dolce.
“Compagnia?” feci io, non capendo più niente. Poi il mio sguardo si volse ad uno dei quadri che c’erano sulla parete di sinistra. Era la laurea. Quel medico -o soldato- era psichiatra.
Mi voltai verso l’infermiere e vidi che in mano aveva un involto di stoffa bianca. Capii subito cosa fosse: una camicia di forza. Stancamente alzai gli occhi fino a fissarli nei suoi.
“Signor Brambilla, mi segua e non ce ne sarà bisogno, coraggio” mi fece con gli occhi tristi. Spostai lo sguardo sull’altra infermiera: il suo sorriso era ora svanito, lasciando lo spazio ad una grande malinconia: mi fece segno di sì con la testa. La mia vita da uomo libero era terminata per sempre.

Il medico guardò uscire Brambilla accompagnato dagli infermieri, dopodiché rimase con gli occhi straniati a fissare un punto sul pavimento. Scosse la testa. “In un mondo dove tutti sono matti e uno solo è sano di mente, in fondo non è questo l’unico matto?”
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 02/03/2012 22:36 Da Titivillus.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 12/03/2012 08:30 #5167

Caviale

E' diventato un uomo, maturo, e proprio ora ne è cosciente.

Lascia di scatto il divano per andare di fronte allo specchio, questo momento di nuova consapevolezza va celebrato degnamente. Ma l'immagine che l'infame vetro rimanda indietro è purtroppo pessima: una canottiera gialla ed un paio di mutande bianche sembrano essere incollate ad un barattolo di un metro e mezzo, con pochi capelli e con la barba non curata.
Un cesso... anzi, un cesso scheggiato, visto che gli mancano anche due denti.

E cosa ha fatto finora questo grande uomo nella sua vita? Niente, apatico come pochi!
Lavoro il giorno e televisione la sera, larva. Un altro sguardo allo specchio rimanda un'idea di disgusto, possibile che si sia ridotto in quel modo? Per quanto tempo si è abbandonato?
E quella sensazione di vuoto, che ti prende allo stomaco quando pensi alle occasioni lasciate o alle opportunità perse, lo accompagna a letto, cullandolo fino al sonno con un nuovo imperativo:
Dare un senso alle giornate!



Sveglia all'alba, il lavoro lo attende presto. Ma lui rinato, lui nuovo, oggi solca il terreno dei suoi pensieri con un nuovo aratro, sparpagliando semi mai visti. In attesa dei germogli, il destino gli da un aiuto mettendogli in mano qualcosa durante una pausa, in uno di quei momenti dove tutti leggono... da seduti.
Capita a volte di accomodarsi senza niente da sfogliare, ed è li che ti butti sulla prima cosa a portata di mano: l'etichetta del bagnoschiuma o gli ingredienti del detergente, soddisfazione quando si trova il foglietto illustrativo di un medicinale.
Oggi è festa grossa, un antibiotico. Ed anche molto potente.

Vediamo un po' subito gli effetti collaterali

A volte ha decorso fatale.

Ah beh, niente. Pensa come te la mettono giù, “a volte”, che stronzi. Pensa a quei poveracci che per testare il farmaco sono morti.

La mente gli inizia a frullare intorno ad un nuovo interrogativo...

Ma chi è che testa i farmaci? Poverelli, chi glie lo fa fare?

Tornato a casa dal lavoro si mette subito alla ricerca di qualcosa, vuole saperne di più. Non tanto per chissà quale interesse, ma sente di dover fare qualcosa di diverso per il nuovo se stesso, e questo lo appaga. Internet, se usata accuratamente, è un ottimo magazzino di informazioni. Scopre quindi che non sono le case farmaceutiche a testare direttamente i prodotti, danno il lavoro sporco in subappalto ad aziende minori, quasi sconosciute.

Perché questo muro? Non si sa niente di loro eppure esistono, guarda qui
dice a se stesso...
ce ne sono almeno tre solo in Italia, e chissà quante nel mondo. Mi piacerebbe saperne di più.

Segue il suo istinto. Venerdì, dopo soltanto mezzo turno lavorativo, parte in direzione della ditta “testatrice” a lui più vicina, con un entusiasmo dentro che non prova da tempo.

Chissà perché lo sto facendo... si chiede lungo la strada,
Cosa penso di ottenere? Una volta viste queste persone cosa penso di fare?
Bah, anche se fosse soltanto una scampagnata non mi importa, non sono partito per salvare il mondo, sono in viaggio perché sentivo di doverlo fare per me. Voglio dare una svolta alla mia vita, cominciando in questo modo, d'istinto! Cazzo!




E lunedì vado anche a rimettermi i denti!
Ecco!


Arriva di primo pomeriggio, non è lontana. Struttura imponente, un grande edificio a due piani.

Evidentemente sono molte le case farmaceutiche che si rivolgono a loro.

Nella reception una bionda ed algida segretaria lo riceve con un freddo sorriso.

In tono con l'ambiente: ferro, cemento e gesso, non c'è altro.

Neanche sa cosa dirle in effetti, ma lei, mostrandosi inaspettatamente gentile, lo mette a suo agio. Lo precede addirittura chiedendogli se è li per i test sulle persone, parlandone come se sia la cosa più naturale del mondo. Pur essendo un estraneo, lo accompagna in una visita aziendale.
Il piccolo tour all'interno dei locali dura circa mezz'ora, facendogli vedere laboratori attrezzatissimi, macchinari molto complessi, strutture all'avanguardia ed altre cose che lui neanche prova a capire.
Prima di riaccompagnarlo all'uscita lo conduce verso l'ultimo reparto.
In silenzio la segue per i corridoi fino che arrivano ad una porta rossa di ferro, pesante. La superano, percorrono un paio di corridoi ed un paio di rampe verso il basso, fatto curioso dato che dall'esterno l'edificio sembra svilupparsi soltanto verso l'alto. Altro corridoio, altra porta rossa; la apre e rimane senza fiato.

E' nel punto più alto e può vedere tutto.
Decine e decine di piccole costruzioni, che sembrano proprio delle case, gli si parano davanti.
Un paese sotterraneo all'interno di una fabbrica.

Passa dei minuti ad osservare quello spettacolo, di tanto in tanto tra una casetta e l'altra scorge delle persone camminare, uno mentre gira l'angolo gli da un'occhiata furtiva. Dalle zone più vicine sente gli odori di una cucina speziata, da una finestra distingue chiaramente le luci alternate di una televisione accesa. Sopra alle case e sopra di lui una fitta rete di fari da l'idea di una luce naturale diffusa in tutto l'ambiente.
Una mano gli sfiora la spalla, è la segretaria.

-Che.. che cosa sono?-

-Sono dei nuclei abitativi, delle case. Qui vivono ventiquattrore su ventiquattro gli uomini e le donne che sperimentano i medicinali, sono qui da anni, alcuni ci sono anche nati. Può chiamarli cavie se vuole, alcuni ironicamente si riferiscono a questo settore parlando del Caviale, il pezzo prelibato della ditta, ma la sostanza rimane la stessa.-

-Ma.. ma... è terribile! Come potete segregare quelle povere persone?-

-Non gridi al lupo prima di averlo visto, qui non si segrega nessuno. Sono liberi di andarsene quando vogliono ma rimangono qui, la vita fuori sarebbe peggiore, ormai sono abituati.-

-E come è nata questa cosa?-

-Inizialmente c'era soltanto lo scarto della società, dei poveri reietti che non avendo più niente da perdere si sono ritrovati ad accettare di fare le cavie per i nostri esperimenti. Un progetto che agli albori era previsto per tre o quattro persone. Vivevano normalmente le loro vite, venivano solo per un controllo quotidiano e poi se ne riandavano. Piano piano però la voce si diffuse, ed altre persone senza un vita al di fuori iniziarono a venire, a chiedere di fare parte del progetto. Venne così l'idea di usare il piano interrato, allora inutilizzato, per costruirci un area apposita per i testati. C'era sempre da mangiare, da bere e dei lettini per chi avesse voglia di riposare. Potevano rimanerci quanto volevano, noi d'altro canto avevamo un controllo maggiore sugli effetti collaterali dei farmaci. Molti iniziarono a dormire qui, col tempo fecero richiesta anche persone con una vita normale, un lavoro e la famiglia, stanchi e stressati dalla quotidianità. Ora, a distanza di anni, hanno formato quello che ora è sotto di lei. Qui possono continuare a vivere tranquillamente, magari non per molto, magari altri 50 anni, chi in splendida forma e chi meno. Il rischio di morire è di poco superiore alla vita che fa lei, la vita normale se così la vogliamo chiamare. La mala sanità uccide anche al piano di sopra ma qui nessuno ti investe o ti spara per prenderti venti euro, nessuno ti prende a bastonate per un parcheggio, le preoccupazioni sono quasi assenti, non c'è da pensare a niente. Arrivare a fine mese, le bollette, il lavoro, il vicino di casa insopportabile e tutte quelle altre mille cose che ogni giorno mettono i bastoni tra le ruote del vivere sereni, qui non esistono. Basta solo accettare i test ai quali si è sottoposti e le loro conseguenze.-

-Perché lo fanno? Che mistero è mai questo? Sanno quante cose non vedranno mai stando qui?-

-Ma allora lei non ha proprio capito cosa faccia stare qui queste persone. Questa è la loro città, la loro vita, qui non ci sono ne scuole ne fabbriche, ne stadi ne autodromi, ma anche qui la gente si incontra e si frequenta lo stesso capisce? Come succede all'esterno, anche qui il succo della vita ha bisogno di poche cose, e lei non sembra averlo capito. Se vorrà fare un giro scenda le scale e si accomodi, io non la seguirò. Non si limiti all'apparenza di chi incontrerà, ricordi che sotto c'è sempre un uomo. Potrebbe anche trovare una nuova vita lei stesso, chi lo sa...-

La donna se ne sta andando lentamente, lui rimane li immobile, ad un passo dalla scala, pensando a quello che gli ha appena detto.

Ai suoi piedi il Caviale non sembra più tanto aberrante come al primo impatto, ed il suo piede si avvicina inconsapevole alla scala. Una bimba sotto di lui corre in bicicletta tra le stradine e sorride, mentre un gruppetto di maschietti giocano con la palla poco distanti da una finestra con la luce accesa. Da dietro le sue tende, in trasparenza, un agile corpo danza al ritmo di una bellissima musica. Sinuoso ed elegante, morbido nel suo volteggio, è impossibile non incantarsi ad ammirarlo. La vita... semplice. I versi di quella canzone gli giungono all'orecchio:


...le grandi parole di una canzone,
canzone d'amore, ecco il mistero.
Sotto un cielo di ferro e di gesso,
l'uomo riesce ad amare lo stesso,
ed ama davvero,
senza nessuna certezza,
che commozione, che tenerezza*



* Balla balla ballerino (Lucio Dalla)
Fragmina verborum titivillus colligit horum
Quibus die mille vicibus se sarcinat ille.
Ultima modifica: 12/03/2012 08:36 Da Titivillus.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 30/03/2012 17:35 #5289

The City of Mads

“Cazzo, hai sentito? Cobain si è sparato un colpo in bocca!”
Rimasi attonito.
“Scusa, non capisco.”
“Non stai guardando il telegiornale? Hanno detto che Cobain si è ammazzato. L'ha trovato un giardiniere o un roba così nella sua villa del cazzo. Gato, ti dico che è vero, merda.”
Cobain si è ammazzato.
L'idea stessa non riusciva a entrarmi in testa. Sbattei il telefono in faccia a Glue e accesi la TV. Su RAITRE ne stavano parlando in quel momento.
Dalla bocca cominciò a uscirmi un profluvio di bestemmie. Uscii di casa e mi misi a correre verso casa di Nigger, il mio migliore amico.
Sua madre aprì la porta guardandomi di sottecchi come faceva sempre. La sua flebile voce mi raggiunse col consueto soffio strascicato con cui pronunciava frasi brevi e secche:
“Il vostro cantante si è ucciso. Ale non voleva crederci.”
La salutai e corsi nella camera del mio amico.
Nigger era sul letto con la chitarra tra le braccia, la faccia da funerale. Mi guardò e disse:
“Non ci posso credere. Pensavo che quando è stato male a Roma non fosse niente, invece era perché era partito. Andre, che merda 'sta storia.”
Nigger non mi chiamava mai per nome, sempre solo col soprannome che lui stesso mi aveva dato, vista la mia mania di arrampicarmi ovunque, Gato.
Dissi:
“Dobbiamo fare qualcosa con i Mads, oggi, stasera. Dobbiamo suonare per ricordarlo.”
I City of Mads era il nostro gruppo di cover grunge. Avevamo anche qualche pezzo scritto da noi, soprattutto in Nirvana style. La band era nata sui banchi di scuola quattro anni prima e da allora eravamo cresciuti molto. Avevamo avuto parecchi nomi prima di quello definitivo. Ricordavo con particolare divertimento The Shit Squirrels, gli Scoiattoli di Merda, che avevamo deciso di abbandonare visto che i proprietari dei locali dove finivamo per suonare ci facevano delle storie, non volendo mettere il nome sulle locandine.
Nigger mi guardò e rispose:
“Non so se ne ho voglia. Non sento un cazzo di energie.”
Lo fucilai con lo sguardo. Dissi:
“Niente cazzate Nigger, glielo dobbiamo e lo dobbiamo a noi stessi. Abbiamo passato quattro anni immersi nella musica che lui ci ha fatto scoprire, l'abbiamo suonata, l'abbiamo vissuta. Adesso alza quel culo, prendi la chitarra e muoviamoci. Dobbiamo spargere la voce in giro e andare a prendere Glue e Blanco. Niente storie.”
Come al solito non mi resistette. Si alzò di scatto in tutti i suoi 195 centimetri e prese la custodia della Gibson. Dopo pochi minuti eravamo sulla sua macchina, una vecchia carcassa FIAT.
Per prima cosa andammo a casa mia a recuperare la mia chitarra e il microfono e poi facendo brontolare il vecchio motore ci dirigemmo verso casa di Glue, il nostro bassista.
Blanco, il batterista era già da lui, la Vespa parcheggiata sotto casa. Mamma Colla ci aprì, anche lei con la faccia triste e trovammo i nostri amici in stato di pesante abbrutimento con lo stereo a palla.
Non ci volle molto a convincerli e dopo pochi minuti ci attaccammo al telefono per avvertire un po' di persone, le nostre ragazze e i ragazzi che seguivano il gruppo.
Avremmo dato il concerto in memoria di Kurt su alla cascina dove ci trovavamo per provare. Il cortile era abbastanza grande per contenere un bel po' di gente e la casa sufficientemente lontana da altre abitazioni per non dare troppo fastidio. Non dovevamo neanche cambiarci: noi i vestiti di scena, la camiciona a scacchi, i jeans e le scarpe da lavoro li portavamo sempre addosso, anche se Nigger, talvolta, tirava fuori la sua essenza modaiola vestendosi da fighetto.
Lui e Glue litigavano spesso per quella ragione. Anzi litigavano spesso per qualsiasi ragione. Anni dopo mi trovai a dire, a una nostra vecchia fan: “In quattro anni i City of Mads hanno litigato più dei Rolling Stones in 50 anni di carriera.” Non esattamente vero vista la litigiosità effettiva degli Stones, ma comunque rende l'idea.
Ci raggiunse Lore, la ragazza di Nigger e la spedimmo nei bar dove si riunivano i ragazzi del nostro giro a chiamare un po' di gente.
Non avevamo bisogno di prove, ci trovavamo già due volte a settimana a suonare assieme e quello era un buon periodo per la musica dal vivo visto che persino un gruppo di ragazzini come il nostro veniva chiamato spesso nei locali.
Partimmo in macchina verso la cascina. Arrivati lì tirammo fuori i nostri amplificatori e il vecchio 16 piste e allestimmo un palco sotto il porticato del fienile. Saranno state le cinque del pomeriggio quando cominciarono ad arrivare i primi amici.
Blanco, Andrea Bianco, stava già picchiando sulla batteria. Si trattava di un batterista molto fisico, un randellatore, dotato di uno splendido senso del tempo e di una tecnica a dir poco ruvida. Si faceva sanguinare sempre le mani quando suonava, anche alle prove, spinto dalla propria sconfinata forza, benché non fosse particolarmente grosso dal punto di vista del fisico. La sua era energia allo stato puro. Era un persona senza mezze misure anche nella vita. E la vita per lui non era stata facile, spedito come un pacco da un genitore separato all'altro fino a quando i due stronzi non avevano messo su delle nuove famiglie con dei nuovi figli e Blanco era finito dai nonni materni. Per il nostro gruppo era stata una fortuna, visto che suo nonno aveva suonato la batteria negli anni '50 e '60 in complessini di musica da ballo e per lo meno aveva una buona strumentazione. Blanco viveva in simbiosi col nostro bassista, Alberto Colla, Glue, amici per la pelle da sempre. Glue era il pilota del gruppo, l'unico che non finisse mai per sfarfallare, che non perdesse mai il tempo, quello che riusciva a pararci il culo in tutte le situazioni più complicate. Glue era davvero un tipo strano: certe sere era il più estroverso della banda, quello che parlava con più persone, altre volte si chiudeva in un silenzio semiautistico, interrotto solo da Blanco o da improvvisi scoppi d'ira nei confronti di Nigger. Nigger, Alessandro Negro, il chitarrista solista, il figo del gruppo, avrebbe saputo provocare con i suoi commenti e le sue prese in giro anche una pietra. Era irritante come irritante la sua capacità di piacere alle ragazze. In quel momento della sua vita aveva trovato una ragazza fissa, Lore, ma per un sacco di tempo aveva girato da una femmina all'altra, invidiato da tutti.
Presi il cavo e collegai il microfono. Speravo che la mia voce non venisse a mancare, come troppo spesso capitava durante i nostri gigs. Era un'autentica maledizione. Di voce ne ho tanta e bella potente, tutti quanti mi dicevano che riuscivo a trasmettere una bella botta, e me ne vantavo un po', ad essere sincero. Il problema era che senza che vi fosse alcun tipo di segnale premonitore, diventavo afono, anche durante un brano, costringendo Nigger a sostituirmi al volo. La voce a volte non tornava a volte invece ripartiva, in modo davvero bizzarro, all'improvviso, anche solo pochi minuti dopo. Sull'esempio di Nigger tutti mi chiamavano Gato. Non so bene cosa mi prendesse: da un momento all'altro sentivo di dovermi arrampicare da qualche parte e lo facevo, agile come un gatto. Inoltre da ubriaco, quasi sempre, non volevo scendere se non dopo estenuanti trattative condotte da Nigger, l'unico in grado di convincermi.
Tutte le persone che ci seguivano pensavano che il gruppo ruotasse attorno a me ma non era del tutto esatto. E' vero che ero l'unico ad essere profondamente amico con tutti gli altri e che riuscivo a mediare le esigenze di tutti ma è anche vero che certi equilibri erano davvero sottili e non determinati da me.
Quasi alle 7 decidemmo di iniziare il concerto. Nigger avrebbe voluto aspettare Lore, andata a prendere una delle nostre fan più fedeli, Francesca, ma la gente cominciava a rumoreggiare e a inveire nei nostri confronti.
Quella sera il concerto fu incredibile. Non credo di aver mai cantato e suonato come quella volta. Eseguimmo tutti i pezzi dei Nirvana, alcuni senza averli mai provati prima e i pezzi scritti da noi che potevano essere vicini al gruppo di Cobain. Tutto funzionò a meraviglia e persino Nigger e Glue non ebbero da litigare nemmeno una volta, rapiti dalla musica che usciva dai nostri amplificatori. Sia le versioni acustiche che quelle elettriche furono convincenti. Noi sapevamo di dover puntare sull'energia, sulla rabbia e non certo sulla tecnica, non possedendone granché. Ma quella sera sia io che Nigger eseguimmo degli assoli che non avevamo mai fatto nella storia dei Mads.
Ad un certo punto qualcuno portò su in cascina delle pizze e delle birre ma noi non ci fermammo, divorati da un'urgenza mai provata prima e dalla musica.
Suonammo fino allo sfinimento e dopo le proteste da parte di un vicino che minacciò di chiamare i carabinieri, decidemmo di smettere ben dopo la mezzanotte. La gente cominciò a defluire rapidamente, il giorno dopo c'era scuola. All'improvviso mi venne un'idea e la riferii agli altri. Furono tutti d'accordo.
Quando Lore e la sua amica se ne andarono, per ultime, tirammo fuori gli strumenti, li collegammo e suonammo “Smells like teen spirt” al massimo del volume possibile, sferzando l'intera collina sottostante. Non credo che le persone che abitavano da quelle parti avessero mai sentito la musica di Kurt, soprattutto non di notte coricati nei loro comodi letti. Il giorno dopo i carabinieri vennero a cercarci e ricevemmo la ramanzina che già avevamo prevista. Non ce ne fregava nulla: noi il nostro saluto a Cobain l'avevamo dato, quella era l'unica cosa che avesse una qualche importanza.
Suonammo poco nei mesi successivi, l'esame di maturità incombeva e inoltre Glue aveva problemi di tendinite a un polso. Subito dopo la maturità ci esibimmo alla festa di leva di un paesino vicino al nostro e fu un disastro, sia dal punto di vista dell'esecuzione, la voce mi andò via al terzo pezzo e non tornò più fino alla fine, sia perché Nigger e Blanco litigarono furiosamente, arrivando alle mani.
Io andai via con la mia ragazza poco dopo, tre settimane di interail in Spagna, Portogallo e Marocco. A settembre mi iscrissi all'Università a Torino, mentre Nigger a Genova e Glue a Milano. Il gruppo, senza che fosse necessario formalizzarlo, di fatto, si sciolse.
All'inizio di dicembre, durante un week end in ci trovavamo tutti a Canelli a cena da Blanco, che nel frattempo aspettava di partire militare non avendo continuato gli studi, decidemmo di dare un concerto. Il progetto era quello di suonare ogni tanto assieme e di non abbandonare i Mads.
La “Grande Reunion” era prevista per il 5 di gennaio. Quel concerto non venne mai suonato. Blanco nella notte tra il 25 e il 26 dicembre ebbe un incidente in macchina e morì sul colpo.
Due giorni dopo, stravolti dal dolore, ci ritrovammo al suo funerale. Nigger ed io fummo obbligati a trattenere Glue che voleva aggredire i genitori di Blanco: i due erano riusciti a mettersi a litigare anche al suo funerale. Una scena vergognosa. Ancora oggi non so se ho fatto bene a fermare Glue, forse avrei dovuto lasciarlo sfogare.
I City of Mads si sono riuniti qualche volta negli anni ma mai sotto questo nome, non avrebbe avuto senso avendo un altro batterista, Graziano. Questi aveva sostituito Blanco quando si era un rotto un braccio, ai tempi in cui ci chiamavamo The Shit Squirrels. Graziano, pur essendo più bravo tecnicamente, non ha mai saputo trovare la stessa totale intensità del titolare e mano a mano anche gli altri ed io abbiamo perso qualcosa. Si cresce, evidentemente.
Qualche anno fa ho rincontrato Francesca, l'amica di Lore, proprio a una delle nostre reunion. Dopo poco tempo siamo andati a vivere assieme e oggi penso che potrebbe essere la donna della mia vita. Anche lei ricorda bene quel nostro concerto su alla cascina, in quella serata di fine aprile, per me la serata in cui cantai e suonai come mai più ho saputo fare in tutta la vita.

Dedicato a Andrea “Blanco” Bianco.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 31/03/2012 00:08 #5298

La vera città dei folli

Mi chiamo Giuseppe e adoro questa finestra che s'affaccia direttamente sul porto di questa città. Sono quasi quindici anni che trascorro il tempo tra queste mura che mi ospitano e, a dire il vero, i primi tempi neanche m'ero accorto di quanto potesse essere interessante osservare il mondo attraverso questo vetro.
Prima preferivo rintanarmi nella mia camera dove divoravo libri, soprattutto di geografia, guardavo spesso e volentieri la TV così come ascoltavo altrettanto volentieri la radio.
Poi ci fu il periodo dei numeri dove decisi d'inventarmi un nuovo sistema per giocare i numeri del lotto svizzero. Sono solo quaranticinque numeri in tutto ed è quindi più facile cercare di tirar fuori qualche soldo.
Quel sistema non ebbe molto successo a dire il vero. Mi portò soltanto paginate di numeri su quaderni senza che ne riuscissi a cogliere il nesso facendomi dilapidare quei quattro spicci che avevo settimanalmente da parte. Ma, d'altronde, non che avessi chissà quali altri vizi e, ciò nonostante, riuscivo comunque a mantenere un certo equilibrio.
Poi, una sera, passando da quella finestra per andare al bagno, vidi un uomo intento a rovistare in un cassonetto dell'immondizia proprio lì di fronte.
Rimasi ad osservarlo perché non sembrava uno dei tanti pescatori d'immondizia. La minuzia con la quale si prodigava all'interno del cassone verde era tale che doveva per forza fare qualcosa d'interessante che meritava d'essere osservato. E, infatti, così era. Non cercava cose da riciclare. Quell'uomo, tutte le sacrosante sere, tirava fuori dai sacchi le bottiglie, i cartoni e ogni altra sorta di involucro simile.
Decisi perciò d'osservarlo sera dopo sera nel tentativo di capire cosa facesse con quelle bottiglie e con quei cartoni. Poi, poche sere dopo, capii. Lo vidi ritagliare da un cartone di latte i punti. Quell'uomo, per davvero, girava i cassonetti giorno dopo giorno per raccogliere i punti che la gente lasciava lì, a portata di mano. E faceva raccolte di ogni tipo. Non mi stupii, infatti, quando qualche mese dopo arrivò munito d'una fantastica torcia in testa messa con lo scotch su un cappello. Chissà con quale concorso l'aveva ottenuta.
Ma era soltanto il primo. Con il passare degli anni osservavo le persone che s'avvicendavano ma anche lo scenario che mutava, di anno in anno, ad una velocità a dir poco rapida.
In poco meno di dieci anni, le barche dei pescatori e i loro banchetti di pesce fresco sul molo (in barba a ogni legge sull'igiene) vennero pian piano sostituite dai teli bianchi di africani subsahariani di ogniddove che vendevano i loro monili, le borse, le scarpe, i cappotti e gli ombrelli (in barba a ogni legge fiscale). Passavano la mattinata a riempire questi oggetti, soprattutto le borse, di carta straccia trovata nel cassone della raccolta differenziata. Eh si, perché nel mentre, anche i cassonetti s'erano modernizzati, non solo i venditori.
Ricordo che ai tempi dell'uomo dei bollini, dietro quei cassonetti, c'era un bar, un negozio di verdura, una trattoria, un barbiere e un calzolaio.
Da quando invece gli africani vendevano quella roba (e, sia chiaro, non certo per colpa o merito loro) non era rimasto nessuno di quei personaggi. Ora c'era un ristorante cinese, un negozio che vendeva un po' di tutto gestito da cinesi, una specie di supermercato etnico gestito da nord africani e uno che faceva il kebab. I libri di geografia di dieci anni fa non si sbagliavano insomma. Era facilmente prevedibile che, il loro sovrannumero, sarebbe prima o poi esondato anche qui.
I pescatori che al mattino intorno alle nove cucivano le reti in attesa della sera successiva erano lentamente spariti così come erano spariti gli spettatori e i turisti che restavano ad osservare uno degli ultimi cantieri navali di quel porto. Ah, che spettacolo quella diga arancione. Si apriva un buco dal quale entrava l'acqua del mare che riempiva, in poco meno di tre ore, l'intero bacino. Entrava la nave, l'acqua veniva risputata in mare ed ecco che il fondo di quell'imbarcazione veniva saldato, riverniciato, ristrutturato così da poter affrontare chissà quante altre avventure.
Come dicevo, anche quel cantiere era sparito ed era stato sostituito, nel mentre, da una specie di chiatta sulla quale avevano preso fissa dimora una filiale di una banca e uno studio di architetti. In fondo, una posizione alquanto originale per due mestieri come quello pensai il primo giorno che capii cosa stavano facendo.
E pensare, che invece, qui dentro queste mura, in quindici anni, non è cambiato quasi niente. Girano le persone che passano a miglior vita, ne arrivano altre pronte a passare a miglior vita ma, ognuna di loro, fa esattamente quello che faceva l'altro prima di lui.
Si alza alle otto, prende le medicine, aspetta impaziente l'ora del pranzo, se è fortunato si fa una passeggiata nel giardino interno, aspetta impaziente l'ora della cena sapendo già che, tanto, di visite anche oggi non ne riceverà e poi aspetta impaziente di addormentarsi, per non svegliarsi più.
Io avevo provato ad accelerare i tempi, quando ancora non ero qui. Avevo provato a tagliarmi quel fastidioso pendaglio che da quasi trentanni non usavo più, da quando un dottore aveva deciso che io non ero sano di mente additando la colpa ad una meningite in età giovanile. Avrei voluto veder lui, in quello stato, in quel paesino dove la prostituta più vicina con la quale sfogarsi distava almeno trenta chilometri. Altro che meningite. Si trattava di represso desiderio ancestrale e, l'unico modo che avevo per levarmi questo fastidio era, appunto, eliminare la parte di me che tanti fastidi mi creava.
Solo che, quel giorno, erano riusciti a salvarmi. Per poi chiudermi qui, sotto controllo, con i farmaci giusti a farmi pensare che fosse giusto vivere. Questi che pretendevano di stare dalla parte giusta venivano a dire a me, che ero matto, che ero autolesionista e che, quei farmaci, m'avrebbero aiutato a condurre un'esistenza dignitosa. Illusi.
Osservare da quella finestra per tutti quegli anni però m'aveva risvegliato. L'uomo dei bollini era stato colui che davvero m'aveva salvato da questo torpore dando un senso alla mia esistenza sterile.
Avevo visto l'orizzonte trasformarsi, avevo visto i punti interrogativi trasformarsi in punti esclamativi, avevo visto la gente salutarsi, ma anche inseguirsi, avevo visto la gente affannarsi per prendere l'ultima corsa della notte ma anche la gente affannarsi e basta perché tranquilla, proprio, non ci sapeva restare. Avevo visto milioni di facce, sentimenti d'ogni tipo ed emozioni sfacettarsi come diamanti sotto l'abile mano di un tagliatore di pietre.
Ed io sarei, quindi, il matto? Io sarei l'infermo mentale? Io sarei il masochista? E tutti quelli lì fuori, allora? Io li ho visto, ve lo giuro. Li ho osservati come nessuno ha mai fatto con me. E se proprio vogliamo usare un metro di giudizio equo chissà quanta gente di la fuori dovrebbe farmi compagnia qui. O, meglio, chissà quanta gente chiusa qui dentro meriterebbe di starsene fuori, a respirare davvero il mondo e non a dover annussare il mare che puzza d'alcool e di piscio del vicino novantaduenne che, di notte, proprio non se la sa tenere.
I parenti, gli amici e soprattutto i dottori ci chiamano matti ma vi dico una cosa: la vera città dei folli sta aldilà di quella finestra.
Io l'ho vista, ve lo giuro.
All'interno di queste mura ci sono soltanto persone che hanno capito che, prima o poi, bisogna morire. Tanto vale prenderne consapevolezza il prima possibile.
Io vi ho visti, ve lo giuro. Non pensate d'essere davvero così diversi da me. Se soltanto fossi un dottore mi prendereste sul serio
Solo d'una cosa mi pento, ormai. Non essere diventato, appunto, dottore anche io. Forse, queste parole, sarebbero davvero servite a salvare qualcuno.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 31/03/2012 00:41 #5300

Drell


"Non ho fatto niente...non ho fatto..."

Aveva gli occhi gonfi e chiusi, il sangue ancora gli colava dalle numerose ferite che gli avevano procurato sul volto.

"Non...sono stato io..."

La testa gli dondolava sui lati, i piedi lasciavano un segno sul pavimento polveroso, mentre lo trascinavano.

"Non..."

"Silenzio!"

L'urlo della guardia alla sua destra lo fece sobbalzare, Drell capì che avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa, se davvero gli fosse importato qualcosa dei pochi connotati che ancora gli erano rimasti dopo le torture e i soprusi che aveva subito. Lo stavano trascinando in due; anche se avesse voluto non sarebbe comunque mai riuscito a stare in piedi da solo.
Dopo minuti che sembrarono ore senti l’aria fresca sul viso: il vento invernale era freddo ma piacevole sulle sue ferite; però quello che sentiva non era solo vento stagionale, con orrore capì che un flyer lo stava attendendo con i motori accesi e le eliche che giravano.

"NO! NOOO! Non sono stato io! Fermatevi! Vi prego!!!"

Non sentì neanche il dolore per il pugno che gli rifilarono nello stomaco, ormai il suo corpo si rifiutava di provarne ancora.
Senza potersi opporre lasciò che lo caricassero a bordo del flyer, che subito dopo si alzò in volo nel buio della notte, punteggiata dalle luci di New York.

"Dove...mi state..."

Sapeva dove lo stavano portando, ma non voleva crederci, voleva sentirlo dalle loro labbra.

"...dove...portate..."

"Ti ho detto di fare silenzio!" Sentì il fetore dell’alito di uno dei suoi carcerieri e capì che gli si era avvicinato terribilmente al viso.

"Lo sai dove ti stiamo portando." Aggiunse con voce melliflua e divertita. "Ti portiamo da quelli della tua sporca razza, tutti i vigliacchi pazzi assassini che come te non hanno avuto di meglio da fare che distruggere la vita della gente per bene…sput!"

Lo sputo gli arrivò dritto sul labbro superiore; provò ribrezzo, ma capì di non avere neanche la forza di pulirselo: il suo corpo lo stava lasciando. Drell svenne.

Si risvegliò sotto un getto fortissimo di acqua gelida; si rese conto di essere nudo, istintivamente cercò di coprirsi i genitali e di pararsi dal fiotto, con scarsi risultati.
La doccia improvvisata durò molto poco, appena chiusero lo spruzzo vide che si trovava in un locale piastrellato di bianco. La guardia che lo aveva lavato lo spinse fino ad un armadietto, dove lo costrinse a vestirsi con un abbigliamento misero: mutande e camice bianco di lana. Le scarpe erano due semplici zoccoli.
Subito dopo arrivarono altri carcerieri, armati; lo condussero per un lungo corridoio, fino ad arrivare ad un enorme portone d’acciaio. Una delle guardie azionò una leva e il portone si aprì, rivelando una piccola stanza grigia, completamente spoglia, con una porta di legno nella parete opposta.

"Entra." Gli intimò il carceriere alla sua destra.

"...i-io n-non..."

"ENTRA!" La guardia rafforzò il suo imperativo con un violento colpo del calcio del fucile alla spalla destra di Drell, che urlò dal dolore.

L'uomo non poté fare altro che obbedire, entrando nella piccola stanza. Appena oltrepassò la soglia, il portone fu sbattuto alle sue spalle; un rumore di ingranaggi metallici gli fece capire che era stato inesorabilmente sprangato.

Era dentro Manhattan, era dentro la Città dei Folli.

La Terza Guerra Mondiale aveva ridotto in macerie quella parte di New York, una volta sede della zona più ricca della città. Il governo degli Stati Uniti aveva deciso di trasformarla nell'unico penitenziario di massima sicurezza di tutta la nazione, così da convogliare in un singolo luogo tutti gli assassini, in modo da gestirli più facilmente. La loro gestione era infatti molto semplice: venivano scaraventati là dentro e lasciati al loro destino.

Drell attese qualche minuto, fissando la porta chiusa davanti a sé e cercando la forza di aprirla e di vedere cosa avrebbe trovato. Alla fine si decise e girò la maniglia.
Un lungo corridoio si spalancò di fronte a lui, non ne vedeva la fine. I suoi occhi furono però subito catturati dalle tante persone che camminavano, saltellavano, addirittura strisciavano in giro nel corridoio, senza alcuna apparente spiegazione. Si avvicinò ad alcune di esse, sembravano non notarlo, davano l'idea di essere matti da legare. Decise di proseguire, restando comunque guardingo.
Dopo qualche minuto di cammino cominciò ad intravedere una figura diversa dalle altre, dato che era immobile e sembrava fissarlo. Metro dopo metro riuscì a definirne meglio le fattezze: era un uomo, sicuramente molto vecchio. Aveva i capelli lunghi e bianchissimi, la barba non era da meno.
Giunse davanti a lui e si fermò, l'uomo vestiva un camice bianco identico al suo e teneva le mani conserte dietro la schiena. Dopo qualche secondo di sguardi, fu l'estraneo a rompere il silenzio:

"Ben arrivato, qual è il tuo nome?"

"Mi chiamo Drell, tu chi sei?" rispose Drell.

"Puoi chiamarmi Padre, tutti mi chiamano così. Sono colui che aiuta la comunità ad organizzarsi, colui che assegna i compiti."

"Quindi sei il capo della Città dei Folli? Puoi aiutarmi a sopravvivere qui dentro?"

"Effettivamente, molti mi chiamano anche capo." Rispose il vecchio con un sorriso. "Ma io preferisco pensarmi come un sindaco; questa è infatti una città a tutti gli effetti, Drell, ma il suo nome è diverso da quello che conosci. Questa è la Città della Gioia."

Drell era perplesso, cominciò a balenargli in mente l'idea che fosse pazzo anche questo "Padre".

"Vedo confusione nei tuoi occhi, ma non preoccuparti, all’inizio succede a tutti. Lascia che io ti mostri il significato delle mie parole, vieni a vedere come viviamo qui." L'uomo prese Drell a braccetto e lo condusse più avanti nel corridoio.

"Ah già, non fare caso a queste persone. Lo ammetto, molti di loro sono veramente pazzi, ma alcuni sono semplici attori. Li teniamo qui a turno a recitare la parte dei folli, così da soddisfare gli occhi di quelli che potrebbero sbirciare dall’esterno."

"Cosa..." Cominciò Drell.

"Aspetta, tieniti le domande, capirai a tempo debito."

Giunsero alla fine del corridoio, dove li aspettava una porta chiusa. Il vecchio mise la mano sulla maniglia e guardò Drell negli occhi.

"Drell, benvenuto nella Gioia."

L'uomo aprì la porta e una luce abbagliante accolse gli occhi di Drell; ciò che vide fu per lui inverosimile.
Davanti a sé si apriva un tipico paesaggio di campagna: campi coltivati, contadini che zappavano, animali al pascolo…il tutto sormontato da una sorta di enorme soffitto unico, a cui erano attaccati i fari che irradiavano quella forte e calda luce.

"Ma...come è possibile tutto ciò?" A stento Drell riusciva a non balbettare.

Il Padre lo fissò intensamente.

"La tua domanda è sbagliata, quella giusta sarebbe: com'è possibile che non lo sia?" Gustò per qualche secondo il silenzio interrogativo di Drell, poi riprese. "Sai bene che il nostro mondo è al collasso, l'inquinamento ha raggiunto e superato la soglia di non ritorno, ormai la Terra è praticamente compromessa; nonostante ciò i nostri governi insistono nelle loro politiche del veleno. Noi siamo riusciti a creare questo piccolo ambiente seminaturale, dotato di un microclima equilibrato che ci permette di coltivare la terra. Qui gli uomini sono riusciti a ritrovare il rapporto perduto con la natura, il rapporto che avevano instaurato già agli albori della civiltà umana. Qui abbiamo scoperto la gioia di una vita salutare, nella mente e nel fisico."

Drell si prese qualche secondo per riflettere, poi disse:

"Padre, sono veramente esterrefatto. Tutti questi...tutta questa gente, sono assassini? Sono gli assassini e i pazzi provenienti da tutta la nazione?" Il suo sguardo cadde prima su un pastore che conduceva al pascolo un gregge di pecore, poi su un contadino che guidava un aratro trainato da due buoi, quindi su decine di altre persone.
Il vecchio gli posò la mano destra sulla spalla sinistra.

"Dimmi Drell, sei un assassino?"

Gli occhi di Drell fissarono il vuoto, brevi ricordi gli affiorarono alla mente: un coltello insanguinato nella sua mano, la donna che giaceva morta sull’asfalto, l'incapacità di muoversi, le sirene della polizia...

"Io non l'ho uccisa, l'ho solo trovata! Ho preso il coltello per caso, le mie impronte erano lì per questo! Io..."

"Basta così, non era questo che volevo realmente sapere." Intervenne il vecchio. "Volevo solo farti capire che io non posso conoscere la verità e che per questo non mi interessa. Alla Città della Gioia non importa se hai ucciso qualcuno oppure no, solo tu puoi saperlo. Per tutti però c’è una via d’uscita, anche per te ci sarà. Continuiamo il giro, poi ti mostrerò cosa intendo."

I due seguitarono a camminare in quel luogo incantato, visitando locali, magazzini, alcune delle molte case. Tra le altre cose Drell vide anche un vero e proprio caseificio, un mattatoio e addirittura una cantina.
Il Padre gli narrò di tutti i sistemi che gli abitanti della Città della Gioia erano riusciti a inventare per evitare che le forze dell'ordine capissero cosa stesse succedendo lì dentro. Gli disse poi che personalmente lui credeva che in realtà i carcerieri sapessero tutto, ma che non gli interessasse minimamente, dato che per loro l’unica cosa importante era che nessuno scappasse da lì dentro.
Una volta al mese veniva portata un'enorme cassa con gli alimenti destinati ai detenuti; il Padre rise di gusto quando rivelò a Drell che la maggior parte di quel cibo finiva agli animali che allevavano, dato che loro potevano permettersi di mangiare direttamente le cose che coltivavano, molto più genuine.

Dopo due o tre ore - Drell aveva perso il senso del tempo - oltrepassarono una porta ed entrarono in una piccola stanza, molto simile a quella che Drell aveva attraversato subito dopo essere entrato nella Città. Il locale era completamente vuoto e presentava un’unica botola nel pavimento.
Il vecchio si rivolse a lui:

"Eccoci qui, alla fine del nostro viaggio. Hai avuto la possibilità di conoscere brevemente ogni aspetto della vita che si svolge nella nostra comunità, anche se questa è la punta dell’iceberg, come si suol dire. Solo chi vive qui può comprendere il significato di ogni singola goccia di sudore versata sul terreno che sta lavorando. Siamo ora giunti alla tua via d'uscita, Drell."

Indicò la botola.

"Oltre questa botola c'è un tunnel segreto che passa sotto il fiume Hudson e che conduce direttamente nel New Jersey."

Drell spalancò gli occhi.

"Ora dovrai fare una scelta. Non sei stato il primo a farla e non sarai assolutamente l'ultimo, tutti quelli che sono entrati nella Città della Gioia hanno dovuto farla. E' una scelta per la vita, non si torna indietro. Quello che ti chiedo è: vuoi restare qui con noi o vuoi tornare alla tua libertà?"

Drell scelse con cura le parole, poi chiese:

"Padre, com'è possibile che voi diate questa scelta? E una volta fuori non c'è il rischio che qualcuno riveli al mondo l'esistenza della vostra comunità e di questo tunnel?"

Il vecchio rispose velocemente, evidentemente non era la prima volta che sentiva quelle domande.

"Noi non togliamo la libertà, ognuno è libero di decidere della propria vita. Quanto alla seconda domanda, sai bene che nessuno potrebbe parlarne, perché ammetterebbe di essere evaso."

Poi continuò:

"Drell, è stato un piacere conoscerti, ma ora devo lasciarti. Questa è la tua scelta, tua soltanto. Ci rivedremo prima o poi, subito oltre questa porta o nel futuro tra le braccia del Signore."

Detto questo il Padre rientrò nella porta e se la richiuse alla spalle, lasciando Drell alla sua scelta.

L'uomo guardò la botola e pensò a tutto quello che significava: alla libertà di andare ovunque nel mondo, di fare quello che voleva...

Poi scelse: si voltò e aprì la porta, la oltrepassò e la chiuse dietro di sé. Il Padre era lì ad aspettarlo con un sorriso radioso.

Drell capì di aver fatto la scelta giusta. Si era lasciato alle spalle quel mondo malato, quella New York malata, quella maledetta...Città dei Folli.
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Ultima modifica: 31/03/2012 16:34 Da Titivillus.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 31/03/2012 19:10 #5302

Il muro (La città dei folli)

Placida scivolava l'ambulanza sotto il già caldo sole primaverile, percorrendo a sirene spente una lingua di asfalto che con mille saliscendi si incuneava tra due verdi uliveti. Con una curva a destra, poi, si immise su una stradina sterrata che terminava con un cancello, guardato a vista da due uomini armati e in divisa che, non appena la videro arrivare, le aprirono il passaggio. Quando ormai da più di tre ore era iniziato il suo viaggio, Fabio, legato ad una barella all'interno, sentì il veicolo fermarsi; i due inservienti che prima della partenza, senza troppi complimenti, l'avevano “caricato” sull'ambulanza fecero il lavoro contrario. Finalmente, dunque, rivedeva la luce; il luogo in cui era stato sbarcato era un ampio piazzale non asfaltato, apparentemente deserto. Su un cartello campeggiava la scritta “Colonia psichiatrica”. Gli infermieri, o qualunque cosa fossero quei due loschi figuri che s'erano occupati del suo trasbordo, lo abbandonarono lì, ancora legato, e a tutta velocità rimontarono nel veicolo e ripartirono, superando il cancello prontamente richiuso dai due guardiani.

Cosa sarebbe successo dopo, Fabio non riusciva a figurarselo. Già durante il trasporto gli era comparso un certo torpore dovuto all'immobilità; adesso semplicemente non riusciva più a sentire né i piedi né le mani, che penzolavano libere ai lati della barella senza che potesse muoverle. D'improvviso, mentre riponeva tutta la sua concentrazione nel tentativo di contrarre i muscoli del polpaccio per attivare la pompa muscolare e far defluire il sangue (così come aveva letto anni prima, sui manuali di fisiologia), sentì un rumore dietro di sé. Passi. Passi veloci che puntavano verso di lui. Ora, probabilmente nessuna sensazione è così terribile come quella di sentire un rumore qualunque, specie di natura minacciosa, e non potersi voltare a vedere di cosa si tratti. Il volgere la testa verso un possibile pericolo è un riflesso che compare già nei primi mesi di vita, Fabio lo ricordava; quella volta non fu da meno, ma le cinghie che lo legavano alla barella certo non furono d'accordo con questo suo tentativo. Il cuore iniziò a battere all'impazzata: i passi si avvicinavano, erano decisi e scanditi; e c'era poco da stare tranquillo, legato com'era nel bel mezzo di una città di pazzi, lui che pazzo non lo era affatto.

«Non temere, non sono un matto, come del resto non lo sei tu» disse una voce alle sue spalle. «Non ti farò nulla, anzi, sono venuto qui per liberarti e per spiegarti come mai tu sia finito qui. Sempre che tu non lo sappia già, ovviamente.» L'uomo, che si presentò come Marco, avanzò con un coltello e rapidamente recise le cinghie che legavano Fabio; era alto, con un aspetto insolitamente atletico per un uomo della sua età, certamente ben oltre i cinquanta come facevano immaginare i suoi corti capelli bianchi. Indossava vestiti frusti, come se li avesse tenuti addosso per molti mesi ininterrottamente. Tese una mano a Fabio, per aiutarlo a sollevarsi, e lo sorresse quando le sue gambe indolenzite dalla lunga immobilità toccarono terra. Poi, in silenzio, i due presero a camminare lentamente, inerpicandosi su un sentiero che saliva su lieve pendio, circondato dallo splendido bianco dei mandorli in fiore. Quasi in cima alla collinetta, fu Marco a prendere la parola: «Che hai fatto, per finire quassù tra di noi, tra i finti matti?»
Ci volle qualche secondo perché Fabio potesse capacitarsi di aver sentito quelle parole, e la sua risposta fu già chiara nello sguardo smarrito che lanciò al suo interlocutore. Quello, allora, proseguì senza attendere ulteriori repliche verbali: «Va bene, credo di doverti delle spiegazioni. Qui siamo in molti, oltre centocinquanta; ma nessuno di noi è tecnicamente matto. La follia che ci imputano è, in realtà, solo un espediente usato dal governo per giustificare il nostro confino qui. Siamo gente che ha rotto i coglioni, detta altrimenti. Perciò, tu chi sei? Perché ti hanno spedito qui, Fabio?»
«Sono, o meglio ero visto che da qui sembra non esserci via di ritorno, un medico di pronto soccorso; ma di questioni di politica, governo o similari non mi sono mai occupato, ho sempre pensato solo al mio lavoro.»
«Pensaci bene, deve essere successo qualcosa negli scorsi giorni, un qualunque scontro contro un potere di qualsiasi natura, una qualunque cosa che ti abbia contrapposto a loro» insistette Marco.
«Qualcosa in effetti è successo, un piccolo screzio su un paziente per il quale non volevano che mettessi a referto lesioni da corpo contundente, dopo un suo arresto da parte della Polizia...»
«E tanto basta, Fabio, devono averti considerato un possibile pericolo in quella situazione; probabilmente non si era trattato di un semplice incidente, forse avevano deciso di dare una bella lezione a qualcuno di fastidioso.»
«Ma non avrebbero fatto meglio ad eliminarmi, o a darmi una lezione del genere di quella capitata al mio paziente?» chiese Fabio.
«Queste cose fanno rumore, un matto invece se lo portano senza che nessuno possa protestare» rispose l'altro, con fare risolutivo.

Erano intanto arrivati sulla sommità della collina, dalla quale si apprezzava un agglomerato di costruzioni, quasi una piccola città. Allo sguardo interrogativo di Fabio, Marco rispose indicandogli quelle che erano le varie strutture: una piccola clinica, i due depositi in cui erano stoccati i viveri provenienti dai campi circostanti, le case. Tutto era organizzato, come in una qualunque comunità, forse più di quanto non lo fosse una città costruita e popolata da coloro che si ritenevano sani di mente. Ognuno, spiegò ancora l'uomo, contribuiva secondo quelle che erano le proprie capacità e prendeva secondo necessità, quasi si fosse trattato di un'utopistica società marxiana; avevano la fortuna di avere tra loro un ingegnere, che li aveva aiutati nella costruzione di tutto quel che si poteva vedere, e due medici che cercavano, sia pure con tutti le difficoltà del caso, di curare chi si ammalava. La soddisfazione era evidente, lampante in quelle parole. Ma, man mano che Marco procedeva, sul volto di Fabio si disegnava una sempre più evidente smorfia di disappunto; finché esplose in un «Perché?» appena sussurrato.
«Perché, cosa?»
«Perché siete qui, ancora? Perché non usate quello che avete per passare oltre questo muro? Perché vi rassegnate ad esser presi per matti, senza combattere, senza batter ciglio, senza...»
Marco lo interruppe subito. «Non credere che sia così facile. Ci abbiamo pensato, quando siamo arrivati qui per la prima volta, ed eravamo in dieci. Poi abbiamo iniziato ad organizzarci, vedendo tutto quello che deriva da una società fatta di sole persone perbene, di gente che ha con te più affinità di quante ne potresti trovare in un qualunque vicino di casa. Abbiamo creato un mondo che va come un treno, che farebbe invidia agli utopisti; un mondo in cui davvero ognuno contribuisce al massimo, senza risparmiarsi; un mondo dove a volte abbiamo idee diverse su come gestire le cose, certo, ma in cui si decide assieme dopo aver ascoltato tutti. Nessuno di noi ha mai desiderato altro per tutta la vita; e noi, condotti qui come folli, ci siamo resi conto che i veri folli stanno lì fuori, dietro quel muro. Qui arriva solo chi merita, chi ha spirito affine al nostro; gli altri, non vale la pena andarli a recuperare strappandoli al loro torpore.»
Fabio ascoltò tutto in religioso silenzio, guardandosi attorno. Quando Marco ebbe finito, fece un profondo respiro, di quelli che sono cinematograficamente indispensabili prima che si dica o si faccia qualcosa di fondamentale; attaccò poi a parlare. «Per molti il torpore è uno stato costituzionale, e svegliarli non si può, altro che valerne la pena; ma uno come me, cosa ne sapeva di come andasse il mondo? Avevo il diritto che qualcuno me lo spiegasse, ma non c'era nessuno a farlo; e, a parte tutto, si deve sapere cosa succede alla nostra libertà se osiamo ribellarci. Dobbiamo assolutamente fermarli...»
Ancora una volta Marco si intromise nel discorso. «Avremmo dovuto fermarli, sì. Avremmo dovuto fermarli quando ancora non esistevano, avremmo dovuto ucciderli nelle culle quando li cullavano le nenie del disimpegno, dell'antipolitica distruttiva. Avremmo dovuto smettere di cibarli con la cultura della “botta della vita”, del colpo gobbo che ti sistema per l'esistenza; perché da qui deriva tutto: come fai ad avere un limite, se pensi che un solo abuso può portarti alla ricchezza, al potere, alla felicità? Poi, in realtà, non è così: e continuerai a fare quel che hai già fatto, e pian piano farai cose sempre peggiori, vendendoti per piatti di lenticchie sempre più scarsi. Ormai, però, questi figli della nostra società sono maturi, forti, grandi; avremmo dovuto fermarli allora, ma adesso non è più tempo.» E, quasi a sottolineare la sua resa, scosse la testa.
«Io non posso.» gli rispose Fabio. «Forse voi avete lottato, prima di giungere qui, forse questo ha fiaccato le vostre forze; ma per me è stato diverso, è stato l'esatto contrario. Ed ora so cosa devo fare.»

In pochi secondi, Fabio iniziò a scendere dalla collina, percorrendo a ritroso il sentiero su cui erano risaliti; giunse nella radura dove era stato abbandonato, poi vide il cancello ed i soldati che lo presidiavano. Seguì il muro, prima con lo sguardo e poi con i suoi passi; dopo qualche decina di metri si decise a tentare di scavalcarlo, aiutato anche da un vicino albero. Era oltre, ormai, proiettato verso la sua nuova vita.

Dalla collina, Marco poté vedere parte di questi movimenti; lo vide scappare, dalla Colonia, e dentro di sé gli augurò buona fortuna. Gli piaceva, quel ragazzo, gli ricordava il combattente ed il ribelle che era stato; purtroppo, si trovò a pensare, il tempo ci rende disillusi, o saggi, o stupidi. Volse le spalle al punto in cui il giovane aveva superato quel muro, che era assieme fisico e mentale, per dirigersi di nuovo verso casa sua, verso la sua nuova città, con gente che condivideva con lui la sua saggezza, o la sua follia. Mentre camminava, sentì in lontananza dei colpi di fucile, prima isolati, poi una raffica. Seppe che, in un modo o nell'altro, ne avrebbe sentito parlare ancora, di quel Fabio.
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Re: [#3] La città dei folli (racconti) 31/03/2012 22:28 #5303

Il campione di ciclismo

Questa storia racconta di un passato indefinito, di un esperimento che venne condotto in una cittadina nello Stato di Q. e di un campione di ciclismo.
Bisogna sapere che in questo luogo, in seguito a una politica di eccessivo liberalismo (per cui era possibile a ogni abitante scegliere qualsiasi cosa, dalla marca sconosciuta di cetrioli al mercato a strade che portassero ovunque), si ottenne il risultato opposto a quello sperato. L’eccessiva libertà di scelta aveva di fatto privato le persone della possibilità di scegliere effettivamente una cosa piuttosto che un’altra: nessuno era più in grado di scegliere alcuna cosa autonomamente.
Il Dipartimento Delle Profezie venne creato apposta per decidere come si sarebbe svolta la giornata di ogni cittadino, attraverso delle lettere da recapitarsi tutti i giorni a ogni persona e valevoli per un giorno. In queste lettere era contenuta una profezia, che avrebbe indirizzato la vita del destinatario durante tutto l’arco della giornata, decidendo per lui qualsiasi cosa.
Chi effettivamente scrivesse le lettere non si è mai saputo. E non è su questo che verte il cuore della storia.
Storia che ha inizio ora.
E’ una stanza piena di trofei scintillanti e foto celebrative di grandi campioni di ciclismo. E’ la stanza di uno dei postini che tutte le mattine, insieme ad altri colleghi, ha l’onere di recapitare le profezie alle caselle postali di tutta la città. Ogni postino riceve destinatari diversi giorno per giorno. Questioni di trasparenza, dicono.
E’ appena arrivato al Dipartimento con la sua bicicletta da corsa. Va a prendere in consegna le lettere da smistare e prende anche quella indirizzata a lui. La apre, come tutte le mattine.
“Oggi Lei verrà licenziato”. Non una parola di più.
“Che profezia è mai questa?” pensa sconvolto il postino. Potrebbe chiedere spiegazioni, ma non lo fa. Ha un lavoro da portare a termine.
Ancora agitato esce dal Dipartimento e fa per imboccare, con la sua bicicletta e le lettere ben ordinate, la via che lo porterà verso il primo indirizzo della lista che ha ricevuto. Non nota che una giovane donna sta attraversando la strada proprio in quel momento. La collisione avviene quasi per destino.
“Si sente bene?” chiede prontamente il brav’uomo. “Si, le chiedo scusa. Ho attraversato senza guardare”. Dice la donna, rialzandosi velocemente. “La aiuto a raccogliere le lettere”.
“No, no. Faccio da me.” le sorride distrattamente il postino. “Non si preoccupi” .
Le lettere sono sparse per strada. E il postino le raccoglie di fretta. E’ in ritardo.
Una delle lettere si è incastrata nei raggi della bicicletta e, nella fretta di toglierla, ne viene rotta la busta.
“E adesso?” pensa il postino. “La debbo consegnare in questo stato?”
Subito l’attanaglia un altro pensiero. Ben più complesso. “La leggo?” riflette. “Non dovrei”.
Ma, si sa, la curiosità è un parassita che non si espelle a mente calda. Apre la busta e prende in mano la lettera.
La profezia dice: ”Oggi Lei verrà licenziato”.
Il postino è interdetto. Guarda il destinatario. Lo conosce di vista. E’ un uomo giovane. Ma non ha tempo per pensare. Rimette la profezia dentro la busta e se l’infila in tasca. “Questa la consegno per ultima” decide.
Inizia così a pedalare velocemente, isolato per isolato, e a recapitare le lettere. Man mano che il tempo passa, le persone che attendono la loro profezia scendono per strada, ad aspettare il postino in ritardo. Sono tutte molto agitate e alcune fin stizzite. Non sanno letteralmente più che cosa fare senza la loro lettera. Non saprebbero davvero come occupare le loro giornate. Il postino riflette sulla loro condizione, fino ad allora trascurata per via della sua impeccabile puntualità. “Possibile che ci siamo ridotti a vivere sotto direttive? Possibile che non sappiamo più che cosa scegliere? Distinguere da soli se una cosa è giusta o sbagliata?”. Ripensa alla sua profezia. “Io sarò licenziato per davvero? Oppure ho ancora la possibilità di scegliere?”.
“Come mai è in ritardo? Dia qua! Che cosa pensa che dovrei fare senza la profezia? E’ impazzito o cosa? Un’ora buona di ritardo! E io con che coraggio mi presento a lavoro dopo un’ora? Dico, ma ha tempo da perdere Lei?” Queste sono solo una parte delle tante esternazioni dei destinatari che attendono le loro profezie. Vere e proprie crisi d’astinenza. Crisi d’identità. Gente svuotata dalla stessa libertà concessa loro.
Il postino si scusa. Col suo fare garbato. Nessuno sa che notizia gli ha riservato la sua profezia. Fa il suo mestiere in silenzio. E in fretta. Oggi più in fretta che mai. E si che vorrebbe avere del tempo per riflettere. Mai come adesso vorrebbe averne.
Gli mancano due lettere. Una è nella borsa. Una ce l’ha ancora in tasca. La prima è per un uomo con tre figli. La seconda per il giovane che deve essere licenziato. Quello della lettera che ha aperto. Li conosce entrambi di vista.
Passa davanti alla casa del primo. Non è giù che aspetta, a differenza dei precedenti destinatari. Il postino guarda le due buste. “Vado prima dal giovane” decide. “In fondo è solo quattro isolati più avanti”. Mentre percorre la strada, con calma e un po’ di paura, si rende conto che i pioppi che costeggiano la carreggiata stanno rifiorendo dopo un silenzioso inverno. Degli alberi magnifici e discreti.
Un rumore sordo attrae il postino. Un rumore violento. Sono degli uomini. Stanno sferrando dei colpi d’ascia alla base del tronco di uno degli alberi. “Ma che fate?” chiede il postino, avvicinatosi, gli occhi un po’ spauriti.
“Dobbiamo abbattere questi alberi”
“Ma perché?”
“Dobbiamo farlo e basta”.
Insiste timidamente il postino “Abbatterete soltanto gli alberi vecchi?” Uno degli uomini gli si avvicina, gli occhi iniettati di sangue “Non lasceremo neanche una radice”.
Il postino si fa da parte. Pensa a quei magnifici alberi. Sono nella sua stessa condizione. Inermi, contro un boia cieco e sordo. Rassegnato, va fino all’abitazione del giovane uomo. L’uomo che deve essere licenziato. E’ giù che l’aspetta. Apparentemente calmo, non appena arriva il postino gli si fa incontro con occhi speranzosi.
Il postino guarda il giovane. “Egli è come me. E’ come gli alberi. Io non posso permettere che passi quello che sto passando io” pensa.
D’un tratto, l’illuminazione. Prende in mano le due lettere in modo che non si veda che una è stata aperta. Sono ora due lettere bianche perfettamente identiche.
“Ne scelga una” dice a voce bassa.
Il giovane lo guarda perplesso. “Domando scusa?”
“Ne scelga una, La prego” dice il postino, con tono più convincente.
“Lei sta scherzando. Mi dia la mia lettera” risponde il giovane.
“Una di queste due è la Sua lettera. Ma io Le dò un’alternativa. Le concedo la possibilità di scegliere”
“Ma io non posso scegliere” dice il giovane, agitato. “Io non sono capace. Non posso.”
“Se non sceglie, non Le darò alcuna lettera” sentenzia con serietà il postino.
Il giovane suda freddo. Non è più abituato a scegliere. A decidere. A vivere.
“Mi dia quella” dice rassegnato, indicando la lettera chiusa.
Il postino la consegna e lo saluta con una stretta di mano. Per la prima volta, mentre compie il suo lavoro, è felice. Felice di aver evitato un destino complicato a un giovane.
Mentre ritorna sui suoi passi verso la casa dell’ultimo destinatario, una stretta allo stomaco lo blocca. Scuote la testa. “Ma cos’ho fatto? Cos’ho fatto?” si dice tra sé e sé. “Avrò anche salvato, forse, il ragazzo da una brutta notizia… ma ora sono costretto a consegnare a un’altra persona una profezia nefasta che nemmeno gli spettava! Dove ho la testa?” si domanda disperato il pover’uomo. “Io non devo decidere. Non devo agire per gli altri. Chi sono io per sapere che cosa è meglio per gli altri?”
Il postino sta oramai per raggiungere la casa e l’uomo è fuori che lo aspetta. E’ paonazzo in viso. Ed estremamente agitato. Il postino è in grave ritardo. Come l’uomo ne scorge la figura esile in bicicletta, si mette a sbracciare in maniera scomposta.
Da lontano si sentono le urla degli uomini dotati d’ascia e violenza “Cade!”
Accade tutto in poco tempo. Qualche secondo forse. Il postino, man mano che si avvicina all’uomo, pensa al giovane, all’uomo con i tre figli; pensa agli alberi che cadono. Pensa alla sua profezia: e ne intuisce la veridicità. “Forse non c’è nulla di sbagliato in quello che ho fatto. In quello che sto facendo.”
Mentre dice ciò, sorpassa la casa dell’uomo senza voltare lo sguardo.
L’uomo guarda allucinato il postino che pedala velocemente lungo il viale di pioppi e lo insegue, correndo a più non posso.
Dalla borsa del postino cade una lettera di una profezia. E’ datata tanti anni prima. “Lei è un campione di ciclismo”
Il postino, il campione di ciclismo, accelera, andando incontro al licenziamento.

Dedicato a M.L.
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